sabato 13 settembre 2025

Il pane caldo

 



Il profumo che riempiva le strade

Al mattino presto, nei paesi di montagna, non serviva la sveglia. Non c’erano cellulari, non c’erano sirene: era il profumo del pane a richiamare la vita. Prima ancora che il sole illuminasse i tetti, dai forni usciva un odore che riempiva le strade strette, s’infilava sotto le finestre e si diffondeva nei vicoli come un abbraccio invisibile.

Quel profumo era un annuncio: la giornata stava cominciando. Non importava se fosse inverno o estate, se ci fosse la neve o il vento caldo di agosto: l’odore del pane appena sfornato era sempre lo stesso, inconfondibile. Sapeva di casa, di comunità, di semplicità.

Il rito del mattino

Il pane non era solo un alimento, era un rito.
Ogni famiglia aveva il suo modo di comprarlo, di conservarlo, di dividerlo. Al forno, di buon’ora, si formavano file silenziose e insieme chiassose. Le donne scambiavano notizie, raccontavano dei figli, delle malattie, dei raccolti. Gli uomini commentavano il tempo, parlavano di lavori e di politica locale. I bambini, con gli occhi ancora assonnati, aspettavano solo il momento di allungare la mano per rubare la crosta ancora calda.

In quelle file, davanti ai forni, si teneva viva la comunità. Non servivano riunioni ufficiali o grandi eventi: bastava il pane a far incontrare le persone. Una pagnotta dopo l’altra, le notizie correvano, le amicizie si rafforzavano, le distanze si accorciavano.

Il lavoro dei fornai

Dietro quel profumo c’erano mani instancabili. I fornai erano figure rispettate e insieme invisibili: iniziavano a lavorare quando il paese dormiva, e finivano quando tutti erano già a tavola. Impastavano con gesti precisi, conosciuti a memoria. Farina, acqua, sale, lievito: ingredienti poveri, ma capaci di generare miracoli quotidiani.

Il forno a legna era il cuore pulsante. Lo si accendeva la sera, lo si alimentava con legna secca, lo si curava come un organismo vivo. Il calore era distribuito con sapienza, il tempo di cottura conosciuto quasi a istinto. Ogni fornaio aveva i suoi segreti: una farina diversa, un impasto più lungo, un taglio particolare sulla superficie delle pagnotte.

Ma una cosa era certa: il pane non era mai solo pane. Era la misura della vita. Chi tornava dalla campagna stanco trovava conforto in una fetta di pane caldo. Chi partiva per la città portava con sé una pagnotta come ultimo legame con la casa. Chi era povero poteva contare almeno su quello: un pezzo di pane che non mancava mai.

Il pane come legame

Il pane univa. Si spezzava a tavola, si condivideva con i vicini, si offriva agli ospiti. Ogni gesto aveva un significato. Non c’era festa senza pane, non c’era lutto senza pane. Anche nei momenti più difficili, quando la guerra o la miseria toglievano tutto, un pezzo di pane diventava simbolo di dignità.

In Abruzzo e Molise, come in tante altre regioni d’Italia, il pane era anche memoria collettiva. Le nonne raccontavano che durante la guerra si faceva con la farina di castagne o di ghiande, ma non si rinunciava mai ad averne. Il pane diceva: “siamo ancora vivi, resistiamo”.

Il pane di oggi

Oggi, quel profumo si sente sempre più raramente. I forni dei paesi hanno chiuso uno dopo l’altro. Al loro posto sono arrivati i supermercati, le confezioni di plastica, il pane che dura giorni ma che non ha più sapore.

Non è solo una questione di gusto, ma di comunità. Non ci sono più file davanti ai forni, non ci sono più chiacchiere mattutine, non ci sono più mani che impastano di notte per il paese intero. Il pane è diventato un prodotto tra i tanti, non più un rito.

Eppure, quando capita di entrare in un forno artigianale, quel profumo ritorna. È un tuffo nel passato che non lascia indifferenti. Un solo respiro basta per far riaffiorare immagini e ricordi: la cucina con la tovaglia a quadri, il coltello che taglia fette spesse, il burro che si scioglie lentamente sul pane caldo.

Il pane come metafora

Il pane, alla fine, è anche una metafora della vita. Cresce se gli dai tempo, calore, cura. Si rovina se lo bruci o lo dimentichi. È semplice negli ingredienti, ma complesso nel risultato. È uguale da sempre, eppure diverso in ogni paese, in ogni famiglia.

Il pane ci ricorda che non serve molto per essere felici: basta un po’ di essenziale, condiviso. Ci ricorda che la vita si nutre di relazioni, come l’impasto si nutre del lievito. E che senza comunità, senza quel “profumo collettivo”, tutto rischia di diventare più freddo, più vuoto.

Conclusione

Se vi capita, fermatevi davanti a un forno che sforna pane vero. Respirate a fondo. Non state solo sentendo odore di pane: state entrando in contatto con una tradizione che ancora resiste, con una comunità che non vuole spegnersi.

Il pane caldo non è solo cibo. È memoria, identità, appartenenza. È un racconto che continua, finché ci sarà qualcuno disposto ad alzarsi di notte per impastare e finché ci sarà qualcuno disposto a fermarsi, anche solo per un attimo, ad annusare l’aria e a riconoscere che dentro quel profumo c’è la vita.

martedì 9 settembre 2025

Il suono della campana

 

Non solo richiamo religioso, ma orologio collettivo: scandiva i tempi di lavoro, di festa, di lutto. Oggi è rumore, ieri era voce di comunità.

C’era un tempo in cui gli orologi non comandavano la vita: la accompagnavano. Le ore non le segnava il polso, ma l’aria. Bastava fermarsi un istante, spalancare la finestra, e da qualche parte — su in alto, tra pietra e cielo — la campana diceva chi eravamo e che cosa stavamo facendo. Non era soltanto metallo che batteva: era il respiro del paese, il battito del giorno, il filo invisibile che teneva insieme le case, i cortili, i campi.

La mattina iniziava così, con un rintocco che non aveva fretta. Le donne rigiravano l’acqua nella pentola, gli uomini infilavano gli scarponi, i ragazzi infilavano per metà le maniche della giacca, correndo già fuori. Quel suono non chiedeva attenzione: se la prendeva. Ti trovava mentre stavi per uscire, mentre stavi per dire “arrivo”, mentre cercavi nella tasca le chiavi del fienile. E senza parole ti ricordava che la giornata era grande, più grande di te, e che non la vivevi da solo.

La lingua dei rintocchi

Nel paese, tutti capivano la lingua delle campane. Non servivano traduzioni: un bambino sapeva distinguere il richiamo della festa da quello del lutto come si distingue una risata da un pianto. C’era la suonata piena della domenica, che faceva vibrare le finestre e dava alla piazza una luce diversa; c’era il tocco lungo e disteso delle processioni; c’era il martellare rapido dell’allarme, quando in estate partiva un incendio sulla costa dei pini o l’acqua del torrente s’ingrossava all’improvviso.

E poi c’era il rintocco lento dei funerali, misurato, come una goccia che non finisce mai di cadere. Quello si fermava dentro lo stomaco. Le donne sospendevano il cucito, gli uomini smettevano di battere il ferro e poggiavano il martello sul banco. “Chi è?”, si chiedeva qualcuno affacciandosi al vicolo. E il nome correva di bocca in bocca fino a diventare preghiera sommessa. Non c’era bisogno di affissioni: la campana sapeva il dovere di dire a tutti che uno di noi stava per essere accompagnato.

La campana non era un accessorio del sacro, era un bene comune. Se parlava la campana, rispondeva il paese. E quel dialogo, oggi che lo guardo a ritroso, mi sembra il modo più semplice e alto di fare comunità: riconoscersi nel rumore dell’altro, allineare il passo al passo di tutti.

L’orologio di mezzogiorno

A mezzogiorno, il suono arrivava come un invito. Non c’era cucina che non si ridestasse; non c’era tavolo che non si apparecchiasse in fretta. Il pomodoro sobbolliva, il pane usciva dal canovaccio con l’odore denso del forno, le sedie suonavano sul pavimento come una piccola orchestra frettolosa. E i ragazzi, dov’erano? Lontano, a rincorrersi fino al fosso, con le ginocchia piene di polvere e la bocca secca. Bastava un colpo in più, qualcosa nel ritmo, e capivano: si corre a casa. Non era l’ordine di una madre: era la misura di un luogo.

Ricordo che una volta, da bambino, chiesi a mio nonno come facesse il campanaro a sapere “così bene” l’ora. Lui sorrise, si passò la mano sulla fronte e disse: “Non è lui che la sa. È il paese che gliela manda indietro come un’eco: senti come risponde?” Non capii subito. Poi invecchiando ho imparato che c’è una verità nel suono condiviso: ci si educa l’un l’altro senza bisogno di parole, proprio come si impara a camminare nello stesso sentiero guardando le orme di chi ti precede.

Il campanaro e la corda

Il campanaro era un uomo che sapeva di ferro e di olio, di scale e di vento. Aveva le mani segnate, e nella sagrestia una corda grossa pendeva dal soffitto come il prolungamento della torre. Tirava senza strappare, lasciava andare senza mollare, come si fa con le cose delicate. A volte mi portava su con lui, per le scale a chiocciola, e lassù l’aria diventava un animale vivo, entrava a fiotti dalle feritoie, spostava la polvere come neve sottile.

“Non è forza, è misura”, diceva. “Se esageri, il suono si spezza; se trattieni, non arriva giù dove serve.” Quella lezioncina, oggi, potrei appenderla sulla porta di casa: nelle relazioni, nel lavoro, nei giorni — non è forza, è misura. Le campane insegnavano persino questo: che il mondo non si governa con lo strattone, ma con l’arte di dosare.

Festa e paese

Nelle feste la campana scendeva in piazza senza scendere davvero. Il suo suono faceva ondeggiare le bandierine di carta, mischiava il profumo dello zucchero filato a quello della porchetta, infilava una allegria nei balconi. Gli sposi avanzavano a braccetto e i bambini correvano dietro ai confetti come dietro alle lucciole. Il parroco, sorridendo, diceva due parole e qualcuno rispondeva soltanto guardando in su, verso quel bronzo sospeso che, per un attimo, sembrava vibrare a vista d’occhio.

Ma la campana più bella, per me, era quella del vespro d’agosto. Il sole calava oltre il profilo della montagna, il caldo cedeva un poco, e una serie di colpi distesi si spandeva sulle stoppie, sugli orti, sulle tegole roventi. Era come se il giorno desse finalmente una caramella al bambino che era stato buono: “Bravi, avete fatto il vostro. Adesso sedetevi, c’è posto per tutti”.

Il filo del dolore

Eppure non si può parlare di campane senza ricordare anche i giorni cattivi. Il suono in piena notte era come un pugno sul tavolo: la luce si accendeva in fretta, le persiane sbattevano, gli uomini si vestivano al buio, si incontravano in piazza con gli stivali a metà. “Dove?” “Di là, dietro il mulino.” E si correva. La campana non indicava la direzione, ma teneva il filo: finché batteva, sapevi che dovevi andare, che non eri l’unico a muoverti, che la paura era divisa in tanti.

Anche i terremoti hanno una memoria di campana. Non perché suonassero — anzi, quando si muoveva la terra spesso le campane facevano un tintinnio involontario, quasi ironico — ma perché dopo, quando ci si ritrovava all’aperto, il primo suono “normale” che tornava era quello. Era la promessa del giorno successivo, la dichiarazione che il paese non si era perso. Ogni volta che riprendeva a battere, era come se qualcuno mettesse una mano sulla spalla: “Siamo qui”.

Dal canto alla notifica

Oggi la campana suona ancora, ma più spesso la incontriamo come un ostacolo: “fa rumore”, “disturba”, “non è orario”. Viviamo in una sinfonia di allarmi elettronici, sveglie personalizzate, notifiche che ci dicono cosa fare — ma nessuna di quelle voci è una voce condivisa. Ognuno sente il proprio telefono, la propria fretta, il proprio minuto. La campana, invece, metteva d’accordo il tempo di tutti: se era mezzogiorno, era mezzogiorno per il paese intero, non per il singolo appetito.

Non è nostalgia cieca dire che ci manca questa misura comune. Lo si capisce nelle poche occasioni in cui la campana riesce ancora a bucare il frastuono: una processione che torna dopo anni, un funerale che blocca il traffico e costringe le auto ad aspettare, un matrimonio che fa sorridere anche chi resta al balcone a guardare. In quei momenti, l’aria si ricorda come si sta quando si sta insieme: non si tratta di essere devoti o no, ma di riconoscere un codice che ci sopravvive.

I nomi dentro il bronzo

Ogni campana porta iscritti dei nomi. Li trovi in rilievo vicino al bordo, o nella pancia ampia che riflette la luce. Ci sono i santi, le date, i donatori, i maestri fonditori con la loro firma antica. Quelle parole non sono ornamento: sono radici fuse nel metallo. Quando la campana parla, parla anche per chi l’ha voluta, per chi l’ha pagata, per chi l’ha issata lassù con corde e carrucole, con la paura che cadesse.

Una volta, il campanaro mi mostrò una crepa sottile, quasi una ruga. “È vecchia”, disse, accarezzandola con un rispetto da infermiere. “Quando suona questo punto vibra diversamente. Ascolta.” Chiusi gli occhi e sentii, tra il la e il do che rimbalzavano nella torre, una venatura, un’ombra sonora. “Ogni campana ha il suo difetto”, commentò. “È quello che la distingue dalle altre.” Ho pensato spesso a questa frase. Vale per i paesi, per le famiglie, per noi. È il difetto che, suonato con misura, diventa timbro.

Una lezione di tempo

Non è forza, è misura: me lo ripeto quando corro troppo, quando il calendario mi fa credere che i giorni valgano solo se li riempio fino all’orlo. La campana non ha mai fretta, eppure non ritarda. Non s’impone, eppure si fa sentire. Non discute, eppure mette d’accordo. È una maestra esigente e gentile: ti restituisce il senso del tempo come bene comune, non come proprietà privata.

Immagino spesso di spiegare ai più giovani che cos’era, che cos’è, questa voce di bronzo. Non con una lezione, ma con un ascolto. Portarli sotto la torre in un pomeriggio di vento; dire poco; aspettare il primo rintocco. Lasciare che le vibrazioni arrivino allo sterno come una lettera consegnata a mano. Poi farli parlare: che cosa hai sentito? È suono o memoria? È rumore o racconto? La campana, da sola, fa già metà dell’opera. L’altra metà la fa l’orecchio.

Rumore o racconto

“Rumore è ciò che non capiamo”, disse un vecchio maestro del paese quando qualcuno si lamentò per l’ora mattutina. Non lo disse con tono duro, ma con quella dolcezza che scosta le cose senza ferirle. Forse è così: la campana diventa rumore quando non ci sentiamo più parte del suo racconto. Se siamo spettatori distratti, esigiamo il silenzio degli altri; se siamo protagonisti, accettiamo che ci sia una voce più antica della nostra che regola il copione.

E allora mi domando: come si restituisce raccontabilità a quel suono? Forse riportandolo dentro i gesti quotidiani: il pranzo che, una volta ogni tanto, si fa davvero a mezzogiorno; il saluto che si ferma, in strada, quando il funerale attraversa; la festa che si costruisce insieme, non per spettacolo, ma per gratitudine. La campana non ha bisogno che la difendiamo con decreti: ha bisogno che la viviamo.

Un’eco che non si spegne

Ci sono sere in cui, anche se sono altrove, sento dentro un rintocco che non appartiene alla città dove mi trovo. È una memoria di paese, un suono che porta con sé il profumo delle stalle pulite, la polvere che balla nel taglio di luce sotto la porta, il passo ricorrente di chi scende dalla montagna. In quell’eco ritrovo la mia misura: non più bambino, non ancora lontano. Appartengo.

Per qualcuno, tutto questo sarà sempre e solo tradizione. Per me, invece, è una grammatica essenziale: soggetto (la comunità), verbo (si raduna), complemento (intorno a un suono). Non c’è bisogno di crederci in un modo o nell’altro: basta ascoltare per accorgersi che la campana suona per tutti, anche per chi non sale mai i gradini della chiesa.

Conclusione

Il suono della campana è stato — e può essere ancora — molto più di un rito religioso. È un orologio collettivo, un educatore silenzioso alla misura, un filo di voce che non divide ma convoca. Se oggi ci sembra rumore, forse è perché abbiamo smarrito il lessico che permetteva di leggerlo. Ma quel lessico non è perduto per sempre: riposa nelle case, nelle storie che i vecchi sanno, nei bambini che ancora alzano gli occhi quando l’aria vibra.

Basta fermarsi un momento, mettere in tasca il telefono, lasciare che il bronzo faccia il suo mestiere antico. Quello che chiama non è un obbligo, è un’appartenenza. Finché ci sarà una campana che suona, ci sarà un paese che può riconoscersi. E finché qualcuno, sentendola, rallenterà il passo per ascoltare, sapremo che il nostro tempo non è solo un calendario: è una voce che, di tanto in tanto, ci ricorda chi siamo.

✒️ Sotto la panca

Il lume alla finestra



Un segno piccolo, un messaggio universale

C’era un tempo in cui bastava un lume, una semplice candela posata dietro il vetro, per dire molto più di mille discorsi. Il lume alla finestra era un segnale che parlava senza bisogno di parole. Diceva: “Qui c’è qualcuno che ti aspetta”, “Questa casa non è vuota”, “Non sei solo nel buio”. Non era solo un’abitudine domestica, ma un gesto che conteneva dentro di sé intere generazioni di significati.

Nei borghi di montagna, soprattutto, il lume aveva un valore pratico e simbolico. Serviva a orientare chi rientrava tardi dai campi o dal pascolo, a guidare chi saliva dal fondovalle dopo un lungo cammino. Ma era anche un segno di riconoscenza, un piccolo atto di fiducia: la finestra non era mai del tutto chiusa, la casa non era mai del tutto spenta.

Chi ha vissuto nei paesi sa che la luce non era solo quella elettrica, arrivata tardi e a volte incerta. Prima, quando la corrente saltava con i temporali o non c’era affatto, ogni famiglia conosceva l’importanza del lume: lucerne a petrolio, candele, lampade a olio. E dietro ogni fiamma c’era una persona che vegliava.

Il lume come segno di attesa

Nelle sere d’inverno, quando la neve copriva le strade e i passi si facevano lenti, vedere un lume acceso in lontananza era come ricevere un abbraccio. “Sta tornando mio figlio”, pensava una madre, e lasciava la candela sul davanzale. “Forse passerà un viandante”, pensava un vecchio, e teneva la finestra illuminata.

Era un linguaggio semplice, quasi universale. Non importava saper leggere o scrivere: bastava saper guardare. Un lume acceso diceva che la comunità era viva, che la casa non si era spenta, che la notte non aveva vinto del tutto.

Questa attesa non era sempre lieta. A volte il lume era un segno di preghiera: per il soldato lontano, per il marito emigrato, per il fratello partito e mai tornato. Candele accese in file davanti alle finestre segnavano i giorni della guerra, le notti della paura, i mesi dell’emigrazione. Erano luci che tenevano compagnia a chi partiva e a chi restava.

La luce che orienta i passi

Ci sono racconti di anziani che ricordano i tempi in cui, tornando dalla valle al paese, di notte, non c’erano cartelli o fari. C’erano solo i lumi alle finestre che segnavano la via. Una fila di luci sparse, a volte tremolanti, che dicevano: “Ancora pochi passi e sei arrivato”.

Il lume diventava così anche un atto di comunità. Non era solo una candela accesa per sé stessi, ma per gli altri. Per chiunque, nel buio, avesse bisogno di un segno. Una specie di “faro domestico” che indicava direzioni e infondeva sicurezza.

In certi paesi abruzzesi e molisani, ancora fino agli anni ’50, si usava mettere un lume acceso durante le notti di tempesta, quando qualcuno poteva perdersi tornando dai campi. Era un piccolo gesto che poteva salvare una vita.

Il lume che custodisce la memoria

Oggi quelle finestre sono quasi tutte chiuse. Restano persiane sbarrate, vetri polverosi, infissi che non si aprono più. Nei paesi spopolati, al calare della sera, le strade si fanno silenziose e buie. I pochi lumi che resistono appartengono a chi non vuole arrendersi: una nonna che vive sola, una famiglia che è tornata dopo anni, una casa di villeggianti che d’estate si riaccende.

Ma basta vederne uno, per sentirsi parte di una continuità. Perché quel lume racconta una storia più grande di chi lo accende: è il filo invisibile che lega presente e passato. È la memoria che si fa luce concreta.

Non a caso, in molte culture il lume alla finestra ha anche un valore religioso o rituale. Nella notte di Ognissanti, nelle vigilie di Natale, nelle feste patronali, le candele accese sono segni di fede e di comunità. Sono preghiere silenziose che illuminano l’oscurità.

Il lume come simbolo di resistenza

In un tempo in cui i borghi si spengono per mancanza di persone, il lume alla finestra diventa un atto di resistenza civile e culturale. È dire: “Io resto”. È affermare che, anche se intorno il buio sembra prevalere, una piccola luce può ancora resistere.

Non servono grandi progetti o bandi milionari per tenere viva la memoria di un luogo. A volte basta un lume acceso. Un gesto che costa poco, ma che parla a tutti. È un atto di dignità: non spegnere del tutto ciò che ci ha fatto comunità.

Una metafora per i nostri tempi

Forse anche le nostre vite, oggi, hanno bisogno di un lume alla finestra. In un mondo fatto di chiusure, di cancelli e di porte blindate, un segno di apertura, di disponibilità, di calore umano è più necessario che mai.

Il lume può diventare metafora di tante cose:

  • la disponibilità ad ascoltare,

  • la volontà di restare accanto a chi torna,

  • la capacità di non spegnere del tutto i legami, anche quando tutto intorno sembra perdere senso.

Mettere un lume alla finestra significa dire “nonostante tutto, io ci sono”. E se ognuno di noi, nelle proprie case, nelle proprie relazioni, nel proprio lavoro, provasse a tenere accesa questa piccola luce, forse il buio collettivo ci farebbe un po’ meno paura.

Un invito al lettore

La prossima volta che cammini in un borgo, prova a cercare il lume alla finestra. Se lo trovi, fermati un istante. Non è solo una candela accesa: è un pezzo di storia che resiste. È un invito silenzioso a credere che la comunità non muore finché qualcuno tiene viva la sua luce.

E se non lo trovi, forse puoi essere tu ad accenderlo. Non solo nel senso letterale, ma nel senso più ampio: un gesto di apertura, di cura, di memoria. Perché i paesi, come le persone, hanno bisogno di segni visibili per non sentirsi abbandonati.

Il lume alla finestra è questo: un piccolo segno che diventa universale. Un linguaggio che non ha bisogno di traduzioni. Una speranza che continua a brillare, anche quando tutto sembra spento.

sabato 6 settembre 2025

L’ebbrezza e la sobrietà: il confine di un calice

 



Quando il vino è misura e gioia, ma anche rischio: il difficile equilibrio tra piacere e responsabilità

Ci sono momenti in cui il vino è festa, calore, comunione. Basta un calice condiviso con le persone giuste per sentire che la vita diventa più leggera, che le parole scorrono più sincere, che la distanza tra gli uomini si accorcia. Ma ci sono anche momenti in cui quel calice diventa di troppo, in cui l’ebbrezza smette di essere sorriso e diventa smarrimento.

Il vino è da sempre al confine tra gioia e pericolo. Un confine sottile, che ciascuno di noi impara a conoscere con l’esperienza. Ed è proprio questo confine che voglio esplorare: la linea invisibile che divide l’ebbrezza dalla sobrietà, la leggerezza dalla perdita, la misura dall’eccesso.


Il vino che scalda il cuore

Da millenni il vino accompagna la vita degli uomini. Non è solo bevanda: è rito, simbolo, linguaggio. Nel mondo contadino era conforto dopo una giornata di fatica. Sulla tavola delle feste era segno di abbondanza. Nella Bibbia e nella letteratura antica era metafora di vita, di sangue, di gioia.

Nessun’altra bevanda ha avuto un posto così centrale nel nostro immaginario collettivo. Il vino scalda, apre, unisce. Non è mai stato un semplice liquido: è storia liquida.

Ricordo ancora le tavole di paese, quando nei pranzi di matrimonio le bottiglie venivano stappate una dopo l’altra. Non contava l’etichetta: contava la condivisione. Bastava un bicchiere in più perché i canti partissero spontanei, le differenze sociali si sciogliessero, gli abbracci diventassero più sinceri.

Eppure proprio lì, nella gioia, si nascondeva anche l’altra faccia: chi alzava troppo il gomito, chi smetteva di controllarsi, chi trasformava la festa in eccesso.


L’ebbrezza come illusione di libertà

L’ebbrezza ha un fascino antico. È il momento in cui le difese cadono, in cui si dimenticano i pensieri e le preoccupazioni. Per alcuni è libertà, per altri fuga.

Non c’è nulla di male nel lasciarsi andare ogni tanto, purché resti un gioco, un lampo passeggero. Il problema nasce quando l’ebbrezza diventa abitudine, quando il vino non è più compagnia ma stampella, non più piacere ma necessità.

Ho conosciuto persone che nel vino cercavano una via di fuga: dalla solitudine, dalle difficoltà, da un dolore che non sapevano raccontare. In quei casi, il calice non era più un dono ma una trappola.

E allora l’ebbrezza smette di essere leggerezza e diventa schiavitù.


La sobrietà come scelta

La sobrietà non significa rifiutare il vino, ma saperlo vivere nella misura giusta.
Un calice raro, gustato lentamente, può essere più ricco di dieci bicchieri bevuti in fretta.

La sobrietà è un atto di consapevolezza: riconoscere il limite, accettare che non serve superarlo per stare bene. È un atto di libertà più autentico dell’ebbrezza, perché non ha bisogno di illusioni.

Personalmente, con l’età, ho imparato ad amare di più la sobrietà che l’eccesso. Non sollevo il calice ogni giorno, ma quando lo faccio so che quel sorso ha un valore unico. Non cerco più la quantità, ma la qualità dell’attimo.


Il vino come metafora di equilibrio

Il vino stesso insegna la misura. Un grande vino non è mai squilibrato: non è troppo acido, né troppo tannico, né troppo alcolico. La sua bellezza nasce dall’armonia tra gli elementi.

Così dovrebbe essere la vita. L’uomo che cerca solo l’ebbrezza finisce per perdersi; l’uomo che sceglie solo la sobrietà rischia di diventare arido. È nell’equilibrio tra le due che si trova la verità.

Un bicchiere al momento giusto può essere dono. Un bicchiere di troppo può cancellare tutto.


La misura è personale

Non esiste una regola uguale per tutti. La misura è intima, personale.
C’è chi con un bicchiere è già allegro, chi con due è ancora lucido, chi non regge nemmeno mezzo.

La saggezza non sta nel giudicare, ma nel conoscersi. Saper dire “basta” quando basta, saper godere senza rovinare, saper sorridere senza cadere.


Memorie di calici

Se ripenso alla mia vita, ho ricordi diversi legati al vino. I brindisi della giovinezza, le cene con gli amici, i bicchieri di troppo che hanno lasciato il giorno dopo più vuoto che piacere.

Ma ricordo anche i calici rari, quelli che hanno avuto un valore simbolico: un compleanno, un traguardo, un abbraccio dopo tanto tempo. Quei bicchieri non mi hanno dato ebbrezza, mi hanno dato memoria.

E oggi so che sono quelli i più preziosi.


Oltre la misura: un valore collettivo

Oggi si parla tanto di consumo responsabile, di educazione al bere. Ma questo non dovrebbe ridursi a slogan pubblicitari: è cultura. Il vino, se vissuto con rispetto, può diventare occasione di incontro, memoria di comunità, ponte tra generazioni. Non un pericolo da temere, ma una ricchezza da custodire.


Conclusione

L’ebbrezza e la sobrietà sono due facce dello stesso calice. Non si tratta di scegliere l’una o l’altra, ma di imparare a riconoscere il limite che le separa.

Il vino può essere gioia, rito, memoria. Ma può anche diventare peso e smarrimento.
Sta a noi custodire il confine.

Perché il vino, come la vita, è bello quando sa restare equilibrio.

E allora capisco che non serve scegliere tra ebbrezza e sobrietà come opposti inconciliabili. La vera bellezza è nel gesto di alzare il calice con consapevolezza, sapendo che dentro non c’è soltanto vino: c’è il tempo, ci sono le persone, ci sono le storie.

E allora l’ebbrezza diventa sorriso, e la sobrietà non più rinuncia, ma libertà.

✒️ La Panca Vuota – Storie di Vino

Il vino che invecchia, l’uomo che ricorda


 C’è un legame profondo tra una bottiglia che riposa in cantina e un uomo che attraversa la vita. Entrambi sono segnati dal tempo. Entrambi si trasformano, lentamente, quasi impercettibilmente. Ed entrambi, se trattati con cura, diventano più preziosi.

Oggi, a settant’anni, questo parallelismo mi appare con chiarezza. Ho smesso di bere come un tempo: il calice lo sollevo solo in rare occasioni, quando vale davvero la pena. Ma proprio per questo sento che il vino è ancora dentro di me, non come sapore ma come memoria. E guardando una bottiglia che invecchia, ritrovo me stesso, le mie rughe, le mie attese, le mie storie.


Il tempo della botte

Il vino giovane è impaziente. Ha profumi vivaci, colori brillanti, un’energia che sembra voler correre oltre il bicchiere. È come un ragazzo che non vede l’ora di vivere, di provare tutto, di lanciarsi nel futuro.

Poi arriva la botte. Il legno lo accoglie, lo frena, lo costringe a un silenzio lento. Lì dentro il vino cambia: diventa più profondo, perde un po’ della sua irruenza ma acquista complessità. Nascono sfumature che prima non c’erano.

Così è anche per l’uomo. La giovinezza è corsa, impeto, desiderio di tutto. Ma col tempo arrivano le pause, le attese, le riflessioni. Non si perde energia: si guadagna spessore.


Le rughe del vino, le rughe dell’uomo

Ho visto bottiglie conservate male, dimenticate in cantine umide, rovinate dal caldo o dalla polvere. Erano destinate a essere grandi, ma non hanno avuto fortuna.

Ho visto anche persone così: vite segnate da condizioni difficili, talenti mai sbocciati per mancanza di cura o di sostegno.

E poi ho visto bottiglie custodite con attenzione, rispettate, lasciate riposare finché non erano pronte a raccontarsi. Aprirle era un dono: il tempo aveva lavorato per loro.

Così pure per l’uomo: le rughe, se accompagnate da esperienze autentiche, diventano non un segno di decadenza, ma di bellezza vissuta.


L’attesa che arricchisce

Il vino insegna la pazienza. Nessun grande vino nasce in fretta. C’è bisogno di anni, a volte decenni, prima che sia pronto.

Anche l’uomo ha bisogno di tempo. Ci vuole tempo per capire, per perdonare, per imparare ad ascoltare. Ci vuole tempo per riconoscere che non tutto dipende da noi, che certe cose vanno solo lasciate maturare.

Io, oggi, lo so: se avessi avuto tutto subito, non avrei capito il valore di nulla. È stata l’attesa a insegnarmi. Come il vino, anch’io sono stato chiuso nelle mie botti: momenti di solitudine, difficoltà, cambiamenti. Eppure proprio lì, nel silenzio, ho trovato forza e senso.


Il vino e la memoria

Ogni bottiglia ha un anno inciso sull’etichetta: la vendemmia. È il segno del tempo da cui tutto è cominciato. Anche noi abbiamo la nostra annata: l’anno della nascita, che porta con sé un’epoca, un mondo che non esiste più.

Ma il vino non resta fermo alla sua origine: evolve, cresce, cambia. Così facciamo noi.
E quando finalmente si apre una bottiglia invecchiata, non si beve solo vino: si beve la memoria del tempo passato.

Per me, oggi, il vino è soprattutto questo: memoria liquida. Anche se non lo bevo quasi più, lo porto dentro come un archivio di ricordi.


Il rischio dell’attesa

Non tutte le bottiglie reggono l’invecchiamento. Alcune, se aspettano troppo, muoiono. Perdono vitalità, si spegnono. È la regola della vita: non tutto può durare.

Così anche l’uomo. Non tutte le attese portano frutto. Ci sono sogni che si spengono, energie che si consumano. Non è colpa di nessuno: è semplicemente il tempo che decide.

Ma vale la pena provarci, custodire, attendere. Perché quando l’invecchiamento riesce, il risultato è unico: un vino che racconta molto più di se stesso.


Un calice raro

Oggi il mio calice è raro. Non lo alzo più ogni giorno, ma quando lo faccio è un rito.
Ogni sorso è lento, quasi sacro. Non conta il punteggio, non conta il nome: conta l’attimo che lega il vino a una memoria.

Così scopro che non serve bere tanto: basta poco, basta bene. Come nella vita: non servono mille esperienze superficiali, bastano poche, ma vere.


Conclusione

Il vino che invecchia e l’uomo che ricorda si assomigliano. Entrambi portano i segni del tempo, entrambi si trasformano, entrambi custodiscono storie.
E se è vero che il tempo consuma, è anche vero che, quando c’è cura e pazienza, il tempo arricchisce.

A settant’anni, guardando un calice, non vedo solo vino: vedo me stesso. Le attese, le rughe, le stagioni che mi hanno fatto quello che sono.

E allora capisco: il vino non è mai solo bevanda. È metafora di vita. Perché invecchiando non perdiamo: cambiamo. E nel cambiamento, se sappiamo custodire, c’è la bellezza più grande.


✒️ La Panca Vuota – Storie di Vino

martedì 2 settembre 2025

🎭 Degustazione Montepulciano d’Abruzzo DOC 2022 – 3 Atti

 


Ci sono vini che non hanno bisogno di scenografie sontuose o parole altisonanti.
Non inseguono eleganze rarefatte, né si vestono di silenzi aristocratici.
Arrivano decisi, con passo sicuro, e si fanno riconoscere per quello che sono:
vini di sostanza, di calore, di terra.

Un rosso come il Montepulciano d’Abruzzo è questo:
un compagno leale di tavole generose, di piatti che profumano di casa,
di conversazioni lunghe, di abbracci sinceri.
Dietro la sua forza immediata, nasconde un’anima che sa emozionare
chi non cerca solo eleganza, ma verità.


Atto I – La Vista (l’occhio che accoglie)

Il sipario si apre su un calice vestito di rosso rubino intenso,
profondo come il tramonto sulle colline d’Abruzzo.
Riflessi violacei brillano come promesse di giovinezza,
mentre la limpidezza pura riflette una luce senza veli.
Il vino scivola lento sulle pareti, lasciando lacrime regolari:
è la sua consistenza a parlare, annunciando corpo e calore.
Nessuna effervescenza turba la scena:
è quieto, solenne, pronto a raccontare.


Atto II – L’Olfatto (il naso che ascolta)

Un ingresso deciso, senza esitazioni.
Il naso si riempie di amarene, more e prugne,
frutti che portano con sé il sole e la terra.
Poi un soffio di violetta,
delicato e gentile come un ricordo d’infanzia.
Sul fondo, ecco arrivare le spezie scure,
il pepe nero e una carezza di tabacco.
L’orchestra è semplice ma completa:
melodia intensa, che conquista con sincerità.


Atto III – Il Gusto (la bocca che racconta)

L’alcol si fa sentire, caldo e avvolgente, ma senza bruciare: un fuoco che scalda con misura. La morbidezza arriva con i polialcoli, che smussano gli spigoli e donano rotondità al sorso, un passo fluido, vellutato, accogliente. Gli acidi regalano freschezza, una spinta vitale che rende il vino agile, giovane, pulsante. I tannini, ancora un po’ aggressivi, mostrano il carattere della giovinezza: ruvidi quel tanto che basta, ma già in cammino verso levigatezza ed equilibrio, più sostegno che ostacolo, più colonna che spina. Infine la sapidità, una vena minerale che attraversa il palato come ricordo fedele della terra d’Abruzzo.

Il sorso appare così intenso, persistente e di buona qualità: non ancora perfettamente levigato, ma capace di unire calore e freschezza, forza e sincerità. Il finale è lungo, con ritorni di amarena e mora che restano impressi come memoria di un abbraccio. Un vino che negli anni a venire saprà riservare grandi sorprese.


Sipario
Il Montepulciano d’Abruzzo non recita: vive.
È vino vero, generoso, diretto.
Un compagno leale che porta in scena
la forza e il cuore della sua terra.


✒️ Il Degustatore Lento – degustazioni a modo di sognatore