martedì 9 settembre 2025

Il suono della campana

 

Non solo richiamo religioso, ma orologio collettivo: scandiva i tempi di lavoro, di festa, di lutto. Oggi è rumore, ieri era voce di comunità.

C’era un tempo in cui gli orologi non comandavano la vita: la accompagnavano. Le ore non le segnava il polso, ma l’aria. Bastava fermarsi un istante, spalancare la finestra, e da qualche parte — su in alto, tra pietra e cielo — la campana diceva chi eravamo e che cosa stavamo facendo. Non era soltanto metallo che batteva: era il respiro del paese, il battito del giorno, il filo invisibile che teneva insieme le case, i cortili, i campi.

La mattina iniziava così, con un rintocco che non aveva fretta. Le donne rigiravano l’acqua nella pentola, gli uomini infilavano gli scarponi, i ragazzi infilavano per metà le maniche della giacca, correndo già fuori. Quel suono non chiedeva attenzione: se la prendeva. Ti trovava mentre stavi per uscire, mentre stavi per dire “arrivo”, mentre cercavi nella tasca le chiavi del fienile. E senza parole ti ricordava che la giornata era grande, più grande di te, e che non la vivevi da solo.

La lingua dei rintocchi

Nel paese, tutti capivano la lingua delle campane. Non servivano traduzioni: un bambino sapeva distinguere il richiamo della festa da quello del lutto come si distingue una risata da un pianto. C’era la suonata piena della domenica, che faceva vibrare le finestre e dava alla piazza una luce diversa; c’era il tocco lungo e disteso delle processioni; c’era il martellare rapido dell’allarme, quando in estate partiva un incendio sulla costa dei pini o l’acqua del torrente s’ingrossava all’improvviso.

E poi c’era il rintocco lento dei funerali, misurato, come una goccia che non finisce mai di cadere. Quello si fermava dentro lo stomaco. Le donne sospendevano il cucito, gli uomini smettevano di battere il ferro e poggiavano il martello sul banco. “Chi è?”, si chiedeva qualcuno affacciandosi al vicolo. E il nome correva di bocca in bocca fino a diventare preghiera sommessa. Non c’era bisogno di affissioni: la campana sapeva il dovere di dire a tutti che uno di noi stava per essere accompagnato.

La campana non era un accessorio del sacro, era un bene comune. Se parlava la campana, rispondeva il paese. E quel dialogo, oggi che lo guardo a ritroso, mi sembra il modo più semplice e alto di fare comunità: riconoscersi nel rumore dell’altro, allineare il passo al passo di tutti.

L’orologio di mezzogiorno

A mezzogiorno, il suono arrivava come un invito. Non c’era cucina che non si ridestasse; non c’era tavolo che non si apparecchiasse in fretta. Il pomodoro sobbolliva, il pane usciva dal canovaccio con l’odore denso del forno, le sedie suonavano sul pavimento come una piccola orchestra frettolosa. E i ragazzi, dov’erano? Lontano, a rincorrersi fino al fosso, con le ginocchia piene di polvere e la bocca secca. Bastava un colpo in più, qualcosa nel ritmo, e capivano: si corre a casa. Non era l’ordine di una madre: era la misura di un luogo.

Ricordo che una volta, da bambino, chiesi a mio nonno come facesse il campanaro a sapere “così bene” l’ora. Lui sorrise, si passò la mano sulla fronte e disse: “Non è lui che la sa. È il paese che gliela manda indietro come un’eco: senti come risponde?” Non capii subito. Poi invecchiando ho imparato che c’è una verità nel suono condiviso: ci si educa l’un l’altro senza bisogno di parole, proprio come si impara a camminare nello stesso sentiero guardando le orme di chi ti precede.

Il campanaro e la corda

Il campanaro era un uomo che sapeva di ferro e di olio, di scale e di vento. Aveva le mani segnate, e nella sagrestia una corda grossa pendeva dal soffitto come il prolungamento della torre. Tirava senza strappare, lasciava andare senza mollare, come si fa con le cose delicate. A volte mi portava su con lui, per le scale a chiocciola, e lassù l’aria diventava un animale vivo, entrava a fiotti dalle feritoie, spostava la polvere come neve sottile.

“Non è forza, è misura”, diceva. “Se esageri, il suono si spezza; se trattieni, non arriva giù dove serve.” Quella lezioncina, oggi, potrei appenderla sulla porta di casa: nelle relazioni, nel lavoro, nei giorni — non è forza, è misura. Le campane insegnavano persino questo: che il mondo non si governa con lo strattone, ma con l’arte di dosare.

Festa e paese

Nelle feste la campana scendeva in piazza senza scendere davvero. Il suo suono faceva ondeggiare le bandierine di carta, mischiava il profumo dello zucchero filato a quello della porchetta, infilava una allegria nei balconi. Gli sposi avanzavano a braccetto e i bambini correvano dietro ai confetti come dietro alle lucciole. Il parroco, sorridendo, diceva due parole e qualcuno rispondeva soltanto guardando in su, verso quel bronzo sospeso che, per un attimo, sembrava vibrare a vista d’occhio.

Ma la campana più bella, per me, era quella del vespro d’agosto. Il sole calava oltre il profilo della montagna, il caldo cedeva un poco, e una serie di colpi distesi si spandeva sulle stoppie, sugli orti, sulle tegole roventi. Era come se il giorno desse finalmente una caramella al bambino che era stato buono: “Bravi, avete fatto il vostro. Adesso sedetevi, c’è posto per tutti”.

Il filo del dolore

Eppure non si può parlare di campane senza ricordare anche i giorni cattivi. Il suono in piena notte era come un pugno sul tavolo: la luce si accendeva in fretta, le persiane sbattevano, gli uomini si vestivano al buio, si incontravano in piazza con gli stivali a metà. “Dove?” “Di là, dietro il mulino.” E si correva. La campana non indicava la direzione, ma teneva il filo: finché batteva, sapevi che dovevi andare, che non eri l’unico a muoverti, che la paura era divisa in tanti.

Anche i terremoti hanno una memoria di campana. Non perché suonassero — anzi, quando si muoveva la terra spesso le campane facevano un tintinnio involontario, quasi ironico — ma perché dopo, quando ci si ritrovava all’aperto, il primo suono “normale” che tornava era quello. Era la promessa del giorno successivo, la dichiarazione che il paese non si era perso. Ogni volta che riprendeva a battere, era come se qualcuno mettesse una mano sulla spalla: “Siamo qui”.

Dal canto alla notifica

Oggi la campana suona ancora, ma più spesso la incontriamo come un ostacolo: “fa rumore”, “disturba”, “non è orario”. Viviamo in una sinfonia di allarmi elettronici, sveglie personalizzate, notifiche che ci dicono cosa fare — ma nessuna di quelle voci è una voce condivisa. Ognuno sente il proprio telefono, la propria fretta, il proprio minuto. La campana, invece, metteva d’accordo il tempo di tutti: se era mezzogiorno, era mezzogiorno per il paese intero, non per il singolo appetito.

Non è nostalgia cieca dire che ci manca questa misura comune. Lo si capisce nelle poche occasioni in cui la campana riesce ancora a bucare il frastuono: una processione che torna dopo anni, un funerale che blocca il traffico e costringe le auto ad aspettare, un matrimonio che fa sorridere anche chi resta al balcone a guardare. In quei momenti, l’aria si ricorda come si sta quando si sta insieme: non si tratta di essere devoti o no, ma di riconoscere un codice che ci sopravvive.

I nomi dentro il bronzo

Ogni campana porta iscritti dei nomi. Li trovi in rilievo vicino al bordo, o nella pancia ampia che riflette la luce. Ci sono i santi, le date, i donatori, i maestri fonditori con la loro firma antica. Quelle parole non sono ornamento: sono radici fuse nel metallo. Quando la campana parla, parla anche per chi l’ha voluta, per chi l’ha pagata, per chi l’ha issata lassù con corde e carrucole, con la paura che cadesse.

Una volta, il campanaro mi mostrò una crepa sottile, quasi una ruga. “È vecchia”, disse, accarezzandola con un rispetto da infermiere. “Quando suona questo punto vibra diversamente. Ascolta.” Chiusi gli occhi e sentii, tra il la e il do che rimbalzavano nella torre, una venatura, un’ombra sonora. “Ogni campana ha il suo difetto”, commentò. “È quello che la distingue dalle altre.” Ho pensato spesso a questa frase. Vale per i paesi, per le famiglie, per noi. È il difetto che, suonato con misura, diventa timbro.

Una lezione di tempo

Non è forza, è misura: me lo ripeto quando corro troppo, quando il calendario mi fa credere che i giorni valgano solo se li riempio fino all’orlo. La campana non ha mai fretta, eppure non ritarda. Non s’impone, eppure si fa sentire. Non discute, eppure mette d’accordo. È una maestra esigente e gentile: ti restituisce il senso del tempo come bene comune, non come proprietà privata.

Immagino spesso di spiegare ai più giovani che cos’era, che cos’è, questa voce di bronzo. Non con una lezione, ma con un ascolto. Portarli sotto la torre in un pomeriggio di vento; dire poco; aspettare il primo rintocco. Lasciare che le vibrazioni arrivino allo sterno come una lettera consegnata a mano. Poi farli parlare: che cosa hai sentito? È suono o memoria? È rumore o racconto? La campana, da sola, fa già metà dell’opera. L’altra metà la fa l’orecchio.

Rumore o racconto

“Rumore è ciò che non capiamo”, disse un vecchio maestro del paese quando qualcuno si lamentò per l’ora mattutina. Non lo disse con tono duro, ma con quella dolcezza che scosta le cose senza ferirle. Forse è così: la campana diventa rumore quando non ci sentiamo più parte del suo racconto. Se siamo spettatori distratti, esigiamo il silenzio degli altri; se siamo protagonisti, accettiamo che ci sia una voce più antica della nostra che regola il copione.

E allora mi domando: come si restituisce raccontabilità a quel suono? Forse riportandolo dentro i gesti quotidiani: il pranzo che, una volta ogni tanto, si fa davvero a mezzogiorno; il saluto che si ferma, in strada, quando il funerale attraversa; la festa che si costruisce insieme, non per spettacolo, ma per gratitudine. La campana non ha bisogno che la difendiamo con decreti: ha bisogno che la viviamo.

Un’eco che non si spegne

Ci sono sere in cui, anche se sono altrove, sento dentro un rintocco che non appartiene alla città dove mi trovo. È una memoria di paese, un suono che porta con sé il profumo delle stalle pulite, la polvere che balla nel taglio di luce sotto la porta, il passo ricorrente di chi scende dalla montagna. In quell’eco ritrovo la mia misura: non più bambino, non ancora lontano. Appartengo.

Per qualcuno, tutto questo sarà sempre e solo tradizione. Per me, invece, è una grammatica essenziale: soggetto (la comunità), verbo (si raduna), complemento (intorno a un suono). Non c’è bisogno di crederci in un modo o nell’altro: basta ascoltare per accorgersi che la campana suona per tutti, anche per chi non sale mai i gradini della chiesa.

Conclusione

Il suono della campana è stato — e può essere ancora — molto più di un rito religioso. È un orologio collettivo, un educatore silenzioso alla misura, un filo di voce che non divide ma convoca. Se oggi ci sembra rumore, forse è perché abbiamo smarrito il lessico che permetteva di leggerlo. Ma quel lessico non è perduto per sempre: riposa nelle case, nelle storie che i vecchi sanno, nei bambini che ancora alzano gli occhi quando l’aria vibra.

Basta fermarsi un momento, mettere in tasca il telefono, lasciare che il bronzo faccia il suo mestiere antico. Quello che chiama non è un obbligo, è un’appartenenza. Finché ci sarà una campana che suona, ci sarà un paese che può riconoscersi. E finché qualcuno, sentendola, rallenterà il passo per ascoltare, sapremo che il nostro tempo non è solo un calendario: è una voce che, di tanto in tanto, ci ricorda chi siamo.

✒️ Sotto la panca

Nessun commento:

Posta un commento