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sabato 6 settembre 2025

L’ebbrezza e la sobrietà: il confine di un calice

 



Quando il vino è misura e gioia, ma anche rischio: il difficile equilibrio tra piacere e responsabilità

Ci sono momenti in cui il vino è festa, calore, comunione. Basta un calice condiviso con le persone giuste per sentire che la vita diventa più leggera, che le parole scorrono più sincere, che la distanza tra gli uomini si accorcia. Ma ci sono anche momenti in cui quel calice diventa di troppo, in cui l’ebbrezza smette di essere sorriso e diventa smarrimento.

Il vino è da sempre al confine tra gioia e pericolo. Un confine sottile, che ciascuno di noi impara a conoscere con l’esperienza. Ed è proprio questo confine che voglio esplorare: la linea invisibile che divide l’ebbrezza dalla sobrietà, la leggerezza dalla perdita, la misura dall’eccesso.


Il vino che scalda il cuore

Da millenni il vino accompagna la vita degli uomini. Non è solo bevanda: è rito, simbolo, linguaggio. Nel mondo contadino era conforto dopo una giornata di fatica. Sulla tavola delle feste era segno di abbondanza. Nella Bibbia e nella letteratura antica era metafora di vita, di sangue, di gioia.

Nessun’altra bevanda ha avuto un posto così centrale nel nostro immaginario collettivo. Il vino scalda, apre, unisce. Non è mai stato un semplice liquido: è storia liquida.

Ricordo ancora le tavole di paese, quando nei pranzi di matrimonio le bottiglie venivano stappate una dopo l’altra. Non contava l’etichetta: contava la condivisione. Bastava un bicchiere in più perché i canti partissero spontanei, le differenze sociali si sciogliessero, gli abbracci diventassero più sinceri.

Eppure proprio lì, nella gioia, si nascondeva anche l’altra faccia: chi alzava troppo il gomito, chi smetteva di controllarsi, chi trasformava la festa in eccesso.


L’ebbrezza come illusione di libertà

L’ebbrezza ha un fascino antico. È il momento in cui le difese cadono, in cui si dimenticano i pensieri e le preoccupazioni. Per alcuni è libertà, per altri fuga.

Non c’è nulla di male nel lasciarsi andare ogni tanto, purché resti un gioco, un lampo passeggero. Il problema nasce quando l’ebbrezza diventa abitudine, quando il vino non è più compagnia ma stampella, non più piacere ma necessità.

Ho conosciuto persone che nel vino cercavano una via di fuga: dalla solitudine, dalle difficoltà, da un dolore che non sapevano raccontare. In quei casi, il calice non era più un dono ma una trappola.

E allora l’ebbrezza smette di essere leggerezza e diventa schiavitù.


La sobrietà come scelta

La sobrietà non significa rifiutare il vino, ma saperlo vivere nella misura giusta.
Un calice raro, gustato lentamente, può essere più ricco di dieci bicchieri bevuti in fretta.

La sobrietà è un atto di consapevolezza: riconoscere il limite, accettare che non serve superarlo per stare bene. È un atto di libertà più autentico dell’ebbrezza, perché non ha bisogno di illusioni.

Personalmente, con l’età, ho imparato ad amare di più la sobrietà che l’eccesso. Non sollevo il calice ogni giorno, ma quando lo faccio so che quel sorso ha un valore unico. Non cerco più la quantità, ma la qualità dell’attimo.


Il vino come metafora di equilibrio

Il vino stesso insegna la misura. Un grande vino non è mai squilibrato: non è troppo acido, né troppo tannico, né troppo alcolico. La sua bellezza nasce dall’armonia tra gli elementi.

Così dovrebbe essere la vita. L’uomo che cerca solo l’ebbrezza finisce per perdersi; l’uomo che sceglie solo la sobrietà rischia di diventare arido. È nell’equilibrio tra le due che si trova la verità.

Un bicchiere al momento giusto può essere dono. Un bicchiere di troppo può cancellare tutto.


La misura è personale

Non esiste una regola uguale per tutti. La misura è intima, personale.
C’è chi con un bicchiere è già allegro, chi con due è ancora lucido, chi non regge nemmeno mezzo.

La saggezza non sta nel giudicare, ma nel conoscersi. Saper dire “basta” quando basta, saper godere senza rovinare, saper sorridere senza cadere.


Memorie di calici

Se ripenso alla mia vita, ho ricordi diversi legati al vino. I brindisi della giovinezza, le cene con gli amici, i bicchieri di troppo che hanno lasciato il giorno dopo più vuoto che piacere.

Ma ricordo anche i calici rari, quelli che hanno avuto un valore simbolico: un compleanno, un traguardo, un abbraccio dopo tanto tempo. Quei bicchieri non mi hanno dato ebbrezza, mi hanno dato memoria.

E oggi so che sono quelli i più preziosi.


Oltre la misura: un valore collettivo

Oggi si parla tanto di consumo responsabile, di educazione al bere. Ma questo non dovrebbe ridursi a slogan pubblicitari: è cultura. Il vino, se vissuto con rispetto, può diventare occasione di incontro, memoria di comunità, ponte tra generazioni. Non un pericolo da temere, ma una ricchezza da custodire.


Conclusione

L’ebbrezza e la sobrietà sono due facce dello stesso calice. Non si tratta di scegliere l’una o l’altra, ma di imparare a riconoscere il limite che le separa.

Il vino può essere gioia, rito, memoria. Ma può anche diventare peso e smarrimento.
Sta a noi custodire il confine.

Perché il vino, come la vita, è bello quando sa restare equilibrio.

E allora capisco che non serve scegliere tra ebbrezza e sobrietà come opposti inconciliabili. La vera bellezza è nel gesto di alzare il calice con consapevolezza, sapendo che dentro non c’è soltanto vino: c’è il tempo, ci sono le persone, ci sono le storie.

E allora l’ebbrezza diventa sorriso, e la sobrietà non più rinuncia, ma libertà.

✒️ La Panca Vuota – Storie di Vino

giovedì 28 agosto 2025

Le classifiche del vino: contano le storie e le emozioni, non i punteggi

 

Il vino non si misura in voti: resta nella memoria, nei gesti e nelle emozioni.

C’è un momento, nella vita di chi ama il vino, in cui i numeri non bastano più. Io questo momento l’ho raggiunto oggi, a settant’anni.
Non alzo più il calice alle labbra come un tempo: lo faccio solo raramente, in occasioni speciali, quando sento che vale la pena fermarsi e celebrare. Ed è proprio in quei rari istanti che mi accorgo con chiarezza che le classifiche, i punteggi, le medaglie dorate stampate sulle etichette non raccontano nulla di ciò che davvero resta dentro di noi.

Il vino, per me, non è mai stato una gara. È stato piuttosto un compagno di viaggio, un custode di ricordi, un filo che lega persone, luoghi, emozioni. Oggi, che il calice lo sollevo di rado, mi accorgo che il vino continua a vivere in me anche senza essere bevuto ogni giorno: perché ciò che rimane non è il sorso, ma la memoria che quel sorso ha saputo imprimere.


I numeri non raccontano la vita

Per anni ho letto classifiche e guide. Era un modo per orientarmi, per curiosità, a volte anche per gioco. Un vino da 90 punti sembrava migliore di uno da 87. Una medaglia d’oro attirava l’attenzione più di un’etichetta semplice e sconosciuta.

Eppure, col passare del tempo, mi sono reso conto che quei numeri non raccontavano nulla di ciò che più conta: la vita.
Perché la verità è che lo stesso vino può sembrare diverso a seconda del momento in cui lo bevi, della compagnia, del luogo. Un 92 bevuto in solitudine può lasciare indifferenti, mentre un “anonimo” 84, bevuto in una sera d’estate con gli amici, può trasformarsi in una memoria indimenticabile.

Ricordo un bianco bevuto in riva al mare, molti anni fa, con persone care. Non aveva punteggi da rivista, eppure per me resta ancora oggi il vino più prezioso, perché legato a quel tramonto, a quelle voci, a quella stagione della mia vita.
Che voto avrebbe meritato? Nessuno. O forse cento. Perché non era un vino da classifica: era un vino da ricordo.


Le storie che restano nel bicchiere

Ho sempre pensato che il vino sia, prima di tutto, una storia. La storia di chi lo produce, di chi resiste alla fatica, di chi non abbandona la terra. Una volta, durante un viaggio in Abruzzo, incontrai un vignaiolo che mi disse: “Io non faccio vino per prendere premi. Io faccio vino per raccontare questa collina.”

Quelle parole mi sono rimaste dentro. In quel bicchiere non c’era un numero: c’era il vento che asciugava le uve, la terra sassosa, le mani screpolate dalla vendemmia, il padre che gli aveva lasciato la vigna in eredità.

Oggi capisco ancora meglio la verità di quel gesto. Perché se il vino sopravvive, lo fa grazie a chi lo difende con amore. E queste storie non finiscono mai nelle classifiche: eppure sono la vera anima del vino.


Il vino che ho bevuto, e quello che porto con me

Non bevo più come una volta. La salute e gli anni hanno ridotto i brindisi, e il calice lo sollevo ormai di rado, in occasioni che meritano davvero. Ma non ho bisogno di bere per ricordare.
Ogni bottiglia che ho incontrato è rimasta con me: un Montepulciano d’Abruzzo in una festa di paese, un Chianti bevuto in una trattoria toscana, uno spumante stappato in un matrimonio.

Non ricordo i punteggi, non ricordo le classifiche: ricordo le persone. Ricordo le voci, le risate, i volti che non ci sono più. Ricordo anche i silenzi, quando un bicchiere aiutava a trovare coraggio.

Il vino, oggi, è diventato un archivio della mia memoria. E questo archivio è sempre aperto: basta chiudere gli occhi e tornano i profumi, i sapori, le emozioni.


Le classifiche come bussola, non come tribunale

Non voglio dire che le classifiche non servano. Sono utili, soprattutto a chi inizia. Aiutano a orientarsi in un mondo vasto e complesso, dove le etichette sono migliaia e non sempre si sa da dove partire.

Ma non devono diventare tribunali che giudicano ciò che è valido e ciò che non lo è. Ho bevuto vini “minori” che mi hanno commosso, e bottiglie pluripremiate che non mi hanno lasciato niente.

Il vero appassionato sa che la bussola indica la direzione, ma il viaggio lo decide lui. Così è per il vino: la guida può suggerire, ma l’emozione la scegli tu.


Un calice, anche vuoto, parla ancora

Oggi, spesso, il mio calice resta vuoto. Eppure non è un vuoto triste. È un vuoto che parla, perché so che contiene ricordi.
Quando lo sollevo in rare occasioni, sento che quel gesto ha ancora più valore di prima. Ogni sorso è lento, meditato, quasi sacro. Non ho bisogno di bottiglie da collezione: mi basta la consapevolezza che il vino, anche in un assaggio, porta con sé una parte della mia vita.

Il calice vuoto diventa allora simbolo di memoria. Non bevo ogni giorno, ma continuo a “bere” col cuore: bevo ricordi, bevo emozioni. E mi accorgo che il vino è più grande del vino stesso: è un linguaggio che resiste anche quando non lo gusti più.


Conclusione

A settant’anni ho imparato che il vino non si misura con i numeri. Le classifiche hanno il loro senso, ma non raccontano ciò che conta davvero.
Oggi alzo il calice solo di rado, in momenti particolari, e proprio per questo ogni sorso è più intenso. Non cerco più i punteggi, non inseguo più le medaglie: cerco la memoria che un vino sa evocare, l’emozione che mi lascia dentro.

Perché alla fine il vino non è mai stato una competizione: è un compagno di viaggio. Anche quando il bicchiere resta vuoto, lui continua a parlarmi.
E allora capisco che il calice più prezioso non è quello pieno: è quello che custodisce le emozioni di una vita intera.


✒️ La Panca Vuota