giovedì 28 agosto 2025

Le classifiche del vino: contano le storie e le emozioni, non i punteggi

 

Il vino non si misura in voti: resta nella memoria, nei gesti e nelle emozioni.

C’è un momento, nella vita di chi ama il vino, in cui i numeri non bastano più. Io questo momento l’ho raggiunto oggi, a settant’anni.
Non alzo più il calice alle labbra come un tempo: lo faccio solo raramente, in occasioni speciali, quando sento che vale la pena fermarsi e celebrare. Ed è proprio in quei rari istanti che mi accorgo con chiarezza che le classifiche, i punteggi, le medaglie dorate stampate sulle etichette non raccontano nulla di ciò che davvero resta dentro di noi.

Il vino, per me, non è mai stato una gara. È stato piuttosto un compagno di viaggio, un custode di ricordi, un filo che lega persone, luoghi, emozioni. Oggi, che il calice lo sollevo di rado, mi accorgo che il vino continua a vivere in me anche senza essere bevuto ogni giorno: perché ciò che rimane non è il sorso, ma la memoria che quel sorso ha saputo imprimere.


I numeri non raccontano la vita

Per anni ho letto classifiche e guide. Era un modo per orientarmi, per curiosità, a volte anche per gioco. Un vino da 90 punti sembrava migliore di uno da 87. Una medaglia d’oro attirava l’attenzione più di un’etichetta semplice e sconosciuta.

Eppure, col passare del tempo, mi sono reso conto che quei numeri non raccontavano nulla di ciò che più conta: la vita.
Perché la verità è che lo stesso vino può sembrare diverso a seconda del momento in cui lo bevi, della compagnia, del luogo. Un 92 bevuto in solitudine può lasciare indifferenti, mentre un “anonimo” 84, bevuto in una sera d’estate con gli amici, può trasformarsi in una memoria indimenticabile.

Ricordo un bianco bevuto in riva al mare, molti anni fa, con persone care. Non aveva punteggi da rivista, eppure per me resta ancora oggi il vino più prezioso, perché legato a quel tramonto, a quelle voci, a quella stagione della mia vita.
Che voto avrebbe meritato? Nessuno. O forse cento. Perché non era un vino da classifica: era un vino da ricordo.


Le storie che restano nel bicchiere

Ho sempre pensato che il vino sia, prima di tutto, una storia. La storia di chi lo produce, di chi resiste alla fatica, di chi non abbandona la terra. Una volta, durante un viaggio in Abruzzo, incontrai un vignaiolo che mi disse: “Io non faccio vino per prendere premi. Io faccio vino per raccontare questa collina.”

Quelle parole mi sono rimaste dentro. In quel bicchiere non c’era un numero: c’era il vento che asciugava le uve, la terra sassosa, le mani screpolate dalla vendemmia, il padre che gli aveva lasciato la vigna in eredità.

Oggi capisco ancora meglio la verità di quel gesto. Perché se il vino sopravvive, lo fa grazie a chi lo difende con amore. E queste storie non finiscono mai nelle classifiche: eppure sono la vera anima del vino.


Il vino che ho bevuto, e quello che porto con me

Non bevo più come una volta. La salute e gli anni hanno ridotto i brindisi, e il calice lo sollevo ormai di rado, in occasioni che meritano davvero. Ma non ho bisogno di bere per ricordare.
Ogni bottiglia che ho incontrato è rimasta con me: un Montepulciano d’Abruzzo in una festa di paese, un Chianti bevuto in una trattoria toscana, uno spumante stappato in un matrimonio.

Non ricordo i punteggi, non ricordo le classifiche: ricordo le persone. Ricordo le voci, le risate, i volti che non ci sono più. Ricordo anche i silenzi, quando un bicchiere aiutava a trovare coraggio.

Il vino, oggi, è diventato un archivio della mia memoria. E questo archivio è sempre aperto: basta chiudere gli occhi e tornano i profumi, i sapori, le emozioni.


Le classifiche come bussola, non come tribunale

Non voglio dire che le classifiche non servano. Sono utili, soprattutto a chi inizia. Aiutano a orientarsi in un mondo vasto e complesso, dove le etichette sono migliaia e non sempre si sa da dove partire.

Ma non devono diventare tribunali che giudicano ciò che è valido e ciò che non lo è. Ho bevuto vini “minori” che mi hanno commosso, e bottiglie pluripremiate che non mi hanno lasciato niente.

Il vero appassionato sa che la bussola indica la direzione, ma il viaggio lo decide lui. Così è per il vino: la guida può suggerire, ma l’emozione la scegli tu.


Un calice, anche vuoto, parla ancora

Oggi, spesso, il mio calice resta vuoto. Eppure non è un vuoto triste. È un vuoto che parla, perché so che contiene ricordi.
Quando lo sollevo in rare occasioni, sento che quel gesto ha ancora più valore di prima. Ogni sorso è lento, meditato, quasi sacro. Non ho bisogno di bottiglie da collezione: mi basta la consapevolezza che il vino, anche in un assaggio, porta con sé una parte della mia vita.

Il calice vuoto diventa allora simbolo di memoria. Non bevo ogni giorno, ma continuo a “bere” col cuore: bevo ricordi, bevo emozioni. E mi accorgo che il vino è più grande del vino stesso: è un linguaggio che resiste anche quando non lo gusti più.


Conclusione

A settant’anni ho imparato che il vino non si misura con i numeri. Le classifiche hanno il loro senso, ma non raccontano ciò che conta davvero.
Oggi alzo il calice solo di rado, in momenti particolari, e proprio per questo ogni sorso è più intenso. Non cerco più i punteggi, non inseguo più le medaglie: cerco la memoria che un vino sa evocare, l’emozione che mi lascia dentro.

Perché alla fine il vino non è mai stato una competizione: è un compagno di viaggio. Anche quando il bicchiere resta vuoto, lui continua a parlarmi.
E allora capisco che il calice più prezioso non è quello pieno: è quello che custodisce le emozioni di una vita intera.


✒️ La Panca Vuota

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