Storia di incontri, silenzi e presenze che restano anche quando non le vedi più
C’era una panca, in legno scuro e ferro battuto, sotto il grande tiglio della piazza. Nessuno sapeva da quanti anni fosse lì, ma in paese si diceva che avesse visto passare più stagioni di qualsiasi abitante vivente. La vernice era consumata, il ferro macchiato di ruggine, eppure la sua presenza dava un senso di continuità.
Ogni mattina, verso le otto, il primo ad occuparla era il signor Ernesto
. Giacca di lana anche d’estate, cappello calcato sugli occhi e un bastone più per compagnia che per sostegno. Non parlava molto, ma quando salutava lo faceva con un cenno lento, come a dire “ti vedo, e ti riconosco”.
La panca era il suo osservatorio. Da lì vedeva il fornaio aprire la serranda, il postino pedalare con il sacco giallo, i primi ragazzi correre verso la fermata dell’autobus. Ogni tanto si lasciava scappare un commento: “Eh, com’erano diversi i tempi…”. Non era nostalgia pura, era più una constatazione pacata, come se ogni cosa avesse un ritmo che ormai non riconosceva più.
A metà mattina arrivava Lucia, la sarta. Portava con sé un sacchetto di stoffe, si sedeva e raccontava storie. Non si capiva mai dove finisse la verità e dove iniziasse la sua fantasia. Ernesto la ascoltava senza interrompere, lasciando che le parole si mescolassero all’odore dolce del tiglio in fiore.
A mezzogiorno, la panca restava vuota. Il sole picchiava, la piazza si svuotava, e il silenzio diventava quasi rumoroso. Ma proprio quel silenzio era la parte più viva della giornata: le foglie frusciavano, un cane sonnecchiava all’ombra, e il tempo sembrava allungarsi.
Il pomeriggio portava nuovi avventori: due ragazzini con una palla sgonfia, la maestra in pensione che leggeva il giornale, e il barbiere che, tra una battuta e l’altra, lanciava commenti sulla politica nazionale. Ognuno si fermava un po’, poi riprendeva la sua strada. La panca non tratteneva nessuno, ma lasciava a tutti qualcosa: un ricordo, un pensiero, un momento di tregua.
Un giorno, Ernesto non arrivò. La panca rimase vuota fino a sera. Alcuni notarono l’assenza, altri no. Quando il giorno dopo la notizia della sua morte corse in paese, qualcuno portò un mazzo di fiori e lo lasciò lì, sul legno consumato.
Da allora, ogni mattina, chi passava davanti al tiglio si fermava un attimo. Non per sedersi, ma per guardare quella panca e ricordare che certe presenze restano, anche quando le persone non ci sono più.
E così, sotto il tiglio, la panca continuò a guardare la piazza. Senza parlare, senza muoversi, testimone silenziosa di un paese che cambiava, ma che – in fondo – aveva ancora bisogno di un posto dove fermarsi.
Morale: In un mondo che corre sempre più veloce, anche una semplice panca può insegnarci che fermarsi non è perdere tempo, ma ritrovarlo.
Questo testo è un racconto romanzato: luoghi e personaggi sono frutto di fantasia. Nasce per custodire memorie, emozioni e atmosfere dei borghi italiani, anche quando il tempo sembra averle dimenticate.

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