"Dal nastro al buffet: il Paese che inaugura tutto, tranne il futuro"
"Italia 2025: tagliare il nastro è un’arte. Riempirlo di contenuti, un optional."C’è un’Italia che corre veloce… verso il prossimo taglio del nastro.
Non importa cosa si inauguri: una panchina, un lampione, un cestino per la raccolta differenziata. L’importante è esserci, sorridere, stringere mani, farsi fotografare.
Il rito è sempre lo stesso: si sceglie un giorno (preferibilmente con il sole, o almeno senza pioggia battente), si piazza un bel nastro colorato, si allineano forbici fiammanti e si convoca la stampa locale. Poi si prepara il rinfresco — perché senza pizzette, taralli e bicchieri di plastica pieni di spumante dolce, che festa sarebbe? — e via con i discorsi.
Discorsi che, in genere, si assomigliano tutti: “Un grande traguardo per la comunità”, “Un segno di progresso”, “Un investimento sul futuro”. Frasi pronunciate anche se il “grande traguardo” è un cestino dell’immondizia dotato di posacenere incorporato o una panchina piazzata in un punto dove non passa mai nessuno.
Il copione non cambia mai: applausi alla fine, foto di gruppo con le autorità in prima fila, qualche sorriso di circostanza e, soprattutto, la pubblicazione immediata sui social. Perché l’evento non è ufficiale finché non è finito su Facebook con almeno tre hashtag e la frase “Un passo avanti per il nostro territorio”.
Nel frattempo, intorno all’oggetto della cerimonia, la realtà continua a bussare. Strade dissestate che potrebbero vincere un premio internazionale per la creatività delle buche. Uffici pubblici aperti due giorni a settimana, quando va bene. Servizi sanitari a singhiozzo, con medici che arrivano a giorni alterni e liste d’attesa che fanno sembrare la prenotazione di un concerto un gioco da ragazzi.
Ma oggi non si parla di questo: oggi c’è la festa. Oggi il Paese si mette il vestito buono, anche se sotto resta la solita maglia logora.
L’Italia delle inaugurazioni non conosce crisi. È un settore che funziona sempre, in ogni stagione e con qualsiasi amministrazione. In un Paese dove i cantieri veri durano decenni, la cerimonia dura un’ora e regala la sensazione di aver fatto qualcosa. È una forma di economia parallela, quella del “taglio del nastro”: pochi minuti di gloria, qualche articolo sul giornale, e poi tutto torna come prima.
C’è chi inaugura rotatorie minuscole, costate più in cartelli stradali che in asfalto. Chi taglia il nastro per una pista ciclabile lunga quanto il vialetto di un condominio. E chi organizza addirittura “reinaugurazioni”: opere già aperte anni prima, ma che, con una mano di vernice, tornano buone per un’altra foto ufficiale.
Non mancano le varianti folkloristiche: sindaci che si presentano in abito tradizionale, assessori che declamano poesie scritte per l’occasione, cori locali che intonano l’inno nazionale davanti a un palo della luce appena installato. L’importante è che il tutto sia condito con un buffet generoso: pizzette tiepide, tramezzini arrotolati e una crostata che fa la sua comparsa puntuale in ogni evento.
E c’è un altro dettaglio: queste cerimonie riescono a unire tutti. Non importa se durante l’anno maggioranza e opposizione si sono scannati su ogni questione possibile: davanti a un nastro da tagliare, si sorride tutti insieme. È la magia dell’inaugurazione: l’unico momento in cui la politica smette di litigare… fino al giorno dopo.
Il problema è che, spesso, si inaugura senza un vero seguito. La panchina colorata diventa grigia in pochi mesi, la fontanella smette di funzionare dopo due estati, la pista ciclabile resta vuota perché non collega a nulla. E il giorno in cui qualcuno fa notare queste cose, si risponde con un’altra cerimonia: magari per un nuovo progetto, così la vecchia opera cade nel dimenticatoio.
Ma la gente, a forza di partecipare a queste feste, impara a leggere tra le righe. E comincia a capire che non tutto ciò che si taglia con il nastro è davvero un passo avanti. Perché il progresso non si misura a forbici, ma a risultati.
Eppure, l’Italia delle inaugurazioni è resistente. Sopravvive ai governi, alle crisi economiche, ai cambi di amministrazione. È un po’ come la tradizione del caffè al bar: rassicurante, prevedibile, familiare. Fa sentire tutti parte di qualcosa, anche se quel qualcosa è, in fondo, un’illusione di movimento.
Avanti, quindi, con le panchine colorate, le rotonde con fontanelle, i cartelli turistici che nessuno legge e i cestini “intelligenti” che non parlano, ma si rompono presto. Avanti con le foto ricordo, i post sui social, gli hashtag pieni di entusiasmo. Perché, in fondo, non serve che le cose cambino: basta che sembrino nuove per il tempo di uno scatto.
Perché l’Italia, più che correre, ama sedersi… possibilmente su una panchina appena inaugurata.

Nessun commento:
Posta un commento