martedì 12 agosto 2025

La porta socchiusa – Piccole cose che tengono vivo un borgo

Racconto romanzato ispirato a luoghi, volti e memorie dei borghi italiani. Scritto per gli adulti, perché possano ritrovare storie vissute, e per i giovani, perché possano scoprire un mondo che non esiste più.

In ogni paese di montagna c’è sempre una porta che non si chiude del tutto.
Magari è il vento, o una cerniera stanca, o il legno che con il tempo si è piegato e non combacia più perfettamente con lo stipite.

Ma nei borghi antichi, una porta socchiusa non è quasi mai un caso: è un’abitudine, una piccola dichiarazione di fiducia.
Vuol dire: “Sono in casa, passa pure”.
Vuol dire che dentro c’è qualcuno che non ha paura del mondo, o che ha deciso di affrontarlo lasciando sempre uno spiraglio per chi bussa.
Era una porta verde, con la vernice scrostata agli angoli e una toppa arrugginita che nessuno usava mai.
Restava aperta quanto bastava per far entrare la luce, l’odore dell’aria e, soprattutto, le persone.
Se non eri di casa, bussavi e aspettavi un “Avanti!” che arrivava sempre col sorriso.
Se eri di famiglia o del vicinato, entravi senza cerimonie, con il passo sicuro di chi non aveva bisogno di permessi.
La porta socchiusa era una garanzia: se eri stanco, potevi fermarti; se eri allegro, trovavi qualcuno con cui condividere la risata.
Prima con il legno, poi con la chiave, infine con una sbarra di ferro.
È un cambiamento silenzioso ma decisivo: quando una porta resta serrata per mesi, diventa come un muro in più tra le persone.
E il silenzio, poco a poco, prende il posto delle voci.
E ci sono porte che non si aprono più: dietro di esse, polvere e ricordi condividono lo stesso spazio, in attesa di un ritorno che non arriva mai.
Aveva un’anta che cigolava e che lei non si preoccupava mai di aggiustare.
La lasciava socchiusa “perché l’aria deve girare”, diceva.
In realtà, era un invito costante: chi passava poteva affacciarsi e, inevitabilmente, finire seduto al tavolo davanti a un caffè o a un bicchiere di vino.
A volte, bastava sentire il tintinnio dei bicchieri o il rumore di una sedia che si spostava per capire che lì dentro stava nascendo una chiacchierata lunga tutto il pomeriggio.
Dal laboratorio, il profumo del legno fresco si spargeva per il vicolo, e chiunque passasse si fermava a guardare.
Peppe non diceva mai “buongiorno” o “buonasera” come prima cosa: diceva “Vieni, guarda qui”, e ti mostrava l’ultimo pezzo che stava lavorando.
Quella porta era un’attrazione turistica involontaria: gente del paese, bambini curiosi, persino forestieri che si avventuravano tra i vicoli per scoprire da dove arrivasse quell’odore di pino e noce.
Allora, dalla porta socchiusa uscivano profumi di cucina: sugo denso la domenica, minestrone in inverno, caffè forte al mattino.
Ora quelle porte sono serrate, a volte murate, e il vento non trova più spiragli per portare dentro la voce del paese.
Una porta socchiusa non è solo un dettaglio: è una scelta.
È dire al vicino: “Fidati di me, io mi fido di te”.
È ricordare che la casa non è un rifugio privato ma un punto d’incontro.
Che vivere in un borgo significa condividere, non solo abitare.
Mi rispose:
Se arrivavi, entravi.
Se avevi fame, ti sedevi.
E se avevi un problema, non bussavi nemmeno: entravi e lo dicevi.
Così si viveva, e io non vedo perché cambiare”.
dalla fiducia di una porta lasciata appena aperta.
Perché finché ci sarà anche solo una porta socchiusa, ci sarà la possibilità di entrare.
E finché si entra, ci si incontra.
E dove ci si incontra, la vita continua.

La porta socchiusa è un messaggio in codice che tutti, lì, sanno leggere.

Quando ero bambino, mia nonna aveva una porta così.

Quella porta era il punto di passaggio di mille storie: il latte fresco lasciato sul tavolo, la vicina che arrivava con un piatto di pizzelle ancora calde, il postino che entrava fino alla cucina per bere un bicchiere d’acqua.

Oggi, invece, nei borghi che si svuotano le porte si chiudono sempre meglio.

Ci sono porte che si aprono solo per la spesa settimanale o per una messa solitaria la domenica mattina.

Ricordo la casa di zia Carmelina, poco sopra la piazza.

Anche la casa di mastro Peppe, il falegname, aveva la porta sempre aperta.

Quando torno al mio paese d’estate, passo sempre davanti a certe case che da bambino vedevo piene di vita.

Eppure, basterebbe poco per far rivivere quell’abitudine.

Un giorno, parlando con un anziano del paese, gli chiesi perché la sua porta restasse sempre aperta.

“Perché quando ero ragazzo, qui non c’era nessuno che ti chiudeva fuori.

Forse per salvare un borgo bisogna ricominciare da lì:

📚 Questo racconto fa parte di una serie dedicata alla memoria e alla vita dei borghi.

Nota: persone, luoghi e fatti narrati sono frutto di fantasia o liberamente ispirati a elementi reali. Ogni riferimento a persone realmente esistenti è puramente casuale.

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