domenica 31 agosto 2025

In vino veritas – Racconto enologico di un’alba

 


Al primo chiaretto dell’alba, quando il sole timido si affacciava dietro le colline dell’Oltrepò Pavese, camminavo solitario tra i filari. La nebbiolina era sottile come un nebbiolo giovane, e ogni passo affondava in una terra che odorava di barbera appena pigiata.

Il cielo oscillava tra il giallo dorato di un verdicchio e il rosa pallido di un grignolino, passando per riflessi cerasuolo e bagliori di trebbiano. A tratti mi sembrava di intravedere il verde di un sauvignon friulano, e poco dopo la luce ramata di un pinot grigio. Era un cielo fatto di vitigni, come se la natura avesse scelto la lingua del vino per raccontare la sua incertezza.

Mi fermai sotto un vecchio albero di pinot nero. I suoi rami, contorti come botti di rovere, mi offrirono un riparo naturale: un cuvée di silenzio e ombra. L’aria sapeva di pecorino d’Abruzzo e di malvasia, con un accenno minerale da greco di Tufo. Mi accorsi che respiravo come se stessi degustando un calice invisibile, pronto a cogliere sfumature che non sapevo nemmeno nominare.

Fu allora che la vidi.


La donna in rosé

Camminava tra i filari con passo lieve, avvolta in un abito rosé che ricordava il colore di un cerasuolo d’Abruzzo al tramonto. Ogni suo movimento era la danza di una vendemmia: dolce, inevitabile, armoniosa.

I suoi occhi brillavano come bollicine di franciacorta, e il sorriso aveva la freschezza di un prosecco giovane. Nel suo volto si leggeva la dolcezza del moscato d’Asti, ma anche l’eleganza di uno chablis francese. Nei suoi gesti c’era la vivacità di una vernaccia di San Gimignano e la morbidezza di un fiano di Avellino.

Era una sinfonia di vitigni: la luminosità di un grechetto, la grazia floreale di un gewürztraminer, la carezza erbacea di un sauvignon blanc. Sembrava che tutta la biodiversità della vite si fosse raccolta in una sola presenza.


Il linguaggio silenzioso

Mi avvicinai senza parlare. Non era curiosità, ma lo stesso stupore che si prova davanti a una bottiglia attesa da anni in cantina. Ogni suo sguardo era un brindisi, ogni sorriso un calice che si offriva senza bisogno di essere riempito.

Intorno a noi, l’aria profumava di falanghina e di vernaccia nera, con tocchi speziati da cannonau e sfumature vellutate da sangiovese.
Era come ascoltare un’orchestra: il dolce di un passito di Pantelleria, la forza di un amarone della Valpolicella, la sincerità di un montepulciano d’Abruzzo, l’energia di un primitivo di Manduria.

Ogni vitigno evocava una memoria. Ogni profumo era un ricordo che tornava: feste di paese con il cerasuolo nei bicchieri di plastica, matrimoni scanditi da brindisi di spumante trentino, inverni riscaldati da bicchieri di aglianico del Vulture.


Il tempo di un sorso

Restammo lì, sotto l’albero di pinot nero, senza sfiorarci. Bastava il silenzio. Bastava sapere che quel momento sarebbe rimasto, anche senza bottiglie stappate.

Ma come accade con i vini migliori, il sorso fu breve.
Lei mi sorrise ancora una volta, un sorriso luminoso come un greco di Tufo, e poi si allontanò tra i filari, svanendo nella nebbiolina che saliva lenta come un fiano giovane al primo respiro.

Io rimasi immobile, con un amarone in bocca – amaro ma intenso – e un groppello stretto in gola. Il mio volto si fece rosso come un cannonau, e la mia mente corse al dolce amaro di un recioto, al calore profondo di un barolo, alla malinconia lieve di un lambrusco che sfuma presto.


La verità nel vino

“In vino veritas,” mi dissi.
E la verità, quella mattina, era semplice: il vino non è solo bevanda, è linguaggio.
Un bianco fresco parla di leggerezza, un rosso corposo di passione, uno spumante di festa, un passito di ricordi. Ognuno porta dentro una parte della vita.

La donna in rosé che avevo incontrato era tutto questo: un vitigno in cammino, un calice fatto persona.
Non era un sogno, né un’illusione: era la conferma che le emozioni, come i vini, non si misurano in punteggi, ma nei ricordi che lasciano.


Conclusione

Ripresi il cammino tra i filari. Il sole ormai era alto, dorato come un verdelho maturo, limpido come un chardonnay d’annata. L’alba era finita, ma il suo retrogusto rimaneva.

Pensai che non occorre possedere un vino per amarlo: basta averlo assaggiato almeno una volta. Così accade anche con gli incontri: un sorso può bastare per restare nella memoria di tutta una vita.

“In vino veritas,” ripetei tra me e me.
E capii che la verità, quella mattina, aveva la forma di un’alba color rosé, di una donna che svaniva tra i filari, e di una panca vuota pronta a custodire il ricordo.


✒️ La Panca Vuota – Storie di Vino

sabato 30 agosto 2025

🍽️ Esame organolettico con poesia – Gnocchi di patate al pomodoro e basilico



🌿 Poesia per 

Gnocchi di patate con pomodoro e basilico



Nel piatto arriva il ricordo dell’infanzia,
morbido come una carezza di nonna.
Gli gnocchi si adagiano nel rosso vivo del pomodoro,
che profuma d’estate e di tempo lento.

👁 Aspetto:
Liscio e vellutato,
come una collina di sole dopo la pioggia.
Il sugo li avvolge con un abbraccio lucente,
e il verde del basilico disegna la speranza.

👃 Profumo:
È l’aroma della casa aperta a mezzogiorno,
tra l’aglio che sfrigola e la finestra che respira mare e orto.
Un equilibrio di terra e cielo,
di semplicità e festa.

👅 Gusto:
Il primo boccone è un tuffo nel calore,
dove la patata si scioglie e il pomodoro canta.
Il basilico arriva dopo, gentile,
come una parola buona detta al momento giusto.

💓 Giudizio finale:
Piatto sincero, senza maschere né ambizioni:
racconta la verità con la lingua del sapore.
E mentre lo assaggi,
capisci che la poesia non si scrive — si mangia piano.

 Esame Organolettico stile Pensatore lento

👀 Vista

Il piatto si presenta con colori familiari e rassicuranti: il rosso vivo del pomodoro che veste ogni gnocco, il verde brillante del basilico fresco appena spezzato, il tocco dorato del Parmigiano che si scioglie in superficie. Una tavolozza che richiama la semplicità della domenica in famiglia.

👃 Olfatto
Al naso arriva subito la freschezza del basilico, netta e avvolgente. Seguono la dolcezza del pomodoro appena saltato e la nota calda dell’aglio sfiorato in padella. Sullo sfondo, una leggera vivacità del peperoncino che promette energia senza aggressività. Un bouquet autentico, di cucina casalinga.

👅 Gusto
La consistenza degli gnocchi è vellutata all’esterno, morbida e cremosa all’interno. Ogni morso rivela la naturale delicatezza della patata.
Il sugo li abbraccia con equilibrio: la dolcezza del pomodoro è attraversata da una vena acida che dona freschezza e leggerezza. Il basilico amplifica la sensazione verde e fragrante, mentre il Parmigiano regala sapidità e rotondità.
Il peperoncino, discreto, accende il finale con un guizzo caldo che vivacizza senza coprire l’armonia complessiva.

❤️ Emozione
Un piatto che non si limita a nutrire, ma racconta. Evoca la cucina di casa, le mani infarinante che modellano gli gnocchi, il sugo che borbotta lento in pentola, il profumo che invade le stanze.
Ogni forchettata richiama la domenica in famiglia, la convivialità, il senso di appartenenza. È un piatto che lega memoria e presente, tradizione e amore: uno scrigno di semplicità che scalda il cuore prima ancora del palato.

🍷 Abbinamento vino
L’abbinamento con gli gnocchi di patate al pomodoro e basilico va pensato tenendo conto di:

  • la morbidezza degli gnocchi (patata),

  • la vena acida e fresca del pomodoro,

  • l’aromaticità del basilico,

  • la nota sapida e cremosa del Parmigiano,

  • il finale vivace del peperoncino.

Il compagno ideale è un Cerasuolo d’Abruzzo DOC, fresco e fruttato, con tannino leggero che sostiene il pomodoro e accompagna il basilico.
In alternativa: un Trebbiano d’Abruzzo DOC non troppo giovane, capace di unire freschezza e rotondità per bilanciare patata e sugo.
Per chi ama i rossi: un Chianti giovane o un Lambrusco secco completano l’esperienza con vivacità e immediatezza.


Degustazione di un vino bianco fresco – Un racconto in tre atti



Ci sono vini che non hanno bisogno di grandi parole. Non cercano punteggi o riconoscimenti: arrivano semplicemente, con la leggerezza di una brezza estiva, e ti ricordano che la bellezza sta nella freschezza, nell’immediatezza, nella sincerità.
Un vino bianco fresco è questo: un compagno di tavole semplici, di chiacchiere leggere, di sorrisi spontanei. Ma dietro la sua apparente semplicità, custodisce un linguaggio che sa parlare a chi vuole ascoltarlo davvero.


🍇 Fase Visiva – L’occhio che accoglie

L’Abito

Si presenta vestito di luce chiara, come un abito leggero color paglia illuminato dal sole del mattino. Riflessi verdolini brillano appena, come le prime foglie di primavera: segno di gioventù e vitalità.

La Luce

Nel bicchiere è limpido e cristallino, scintilla come acqua di sorgente. La sua trasparenza è promessa di sincerità: non ha nulla da nascondere.

Il Passo

Scivola rapido lungo il vetro, lasciando segni sottili e veloci. È un passo agile, quasi danzante, che racconta leggerezza e freschezza. Non porta il peso del tempo, ma la gioia dell’immediatezza.

Il Respiro

Qua e là un piccolo fremito di bollicine, segno di vitalità. Sono sospiri giovani, che salgono come parole non dette, ricordando che il vino è vivo, anche quando appare tranquillo.


🍊 Fase Olfattiva – Il naso che ascolta

La Voce

Non urla, non pretende attenzione. È una voce chiara, distinta, che arriva con la naturalezza di chi ha poco da dire ma lo dice bene. Non è timida, non è invadente: è un invito gentile ad avvicinarsi.

L’Orchestra

Non suona con cento strumenti, ma con pochi e ben accordati. Una melodia limpida, essenziale, che conquista proprio per la sua purezza. È musica leggera, come una canzone d’estate che rimane impressa senza bisogno di enfasi.

I Ricordi

Dal calice emergono immagini precise: la croccantezza di una mela verde, la dolcezza sobria di una pera appena colta, l’allegria degli agrumi. Poi un soffio floreale – gelsomino, forse fiori di campo – e una lieve nota erbacea, come erba tagliata dopo la pioggia. Sono ricordi semplici, quotidiani, ma per questo preziosi.


🍏 Fase Gustativa – La bocca che racconta

Il Primo Incontro

Al sorso si presenta fresco, vivo, deciso ma mai aggressivo. È come bere direttamente da una sorgente: limpido, diretto, immediato.

La Presenza

Non ha il corpo di un vino maturo, ma la leggerezza di un passo veloce. In bocca resta agile, sottile, quasi giocoso: più carezza che abbraccio, più danza che marcia.

L’Armonia

L’acidità è la sua linfa: vivace, allegra, mai eccessiva. L’alcol rimane discreto, la dolcezza è appena accennata: tutto convive in un equilibrio pulito e naturale. È un vino che non stanca, ma accompagna.

I Sapori

Il palato ritrova i frutti già annunciati dal naso: mela verde, pera, agrumi delicati. Una lieve vena minerale, quasi salina, ricorda la brezza marina, mentre un accenno amarognolo finale evoca la mandorla fresca. È un gusto che parla di natura semplice e sincera.

L’Eco

La persistenza non è lunga, ma quello che resta è fresco e piacevole: un sorriso breve ma autentico, che non si dimentica. È un’eco discreta, che non pretende applausi ma lascia la bocca pronta a un altro sorso.


🌿 Conclusione

Un vino bianco fresco è come un incontro improvviso in una sera d’estate: non sconvolge la vita, ma la rende più leggera. È un vino che vive di immediatezza, di verità semplici, di ricordi spontanei. Non promette profondità infinite, ma regala ciò che serve: freschezza, autenticità, gioia.

E forse è proprio questo il segreto: capire che non sempre occorrono grandi bottiglie o lunghi invecchiamenti per emozionarsi. A volte basta un calice chiaro e trasparente, un sorso che sa di frutta e di fiori, una panca dove sedersi a chiacchierare.
Il vino, ancora una volta, non si misura in punteggi: si misura nei ricordi che lascia.


✒️ La Panca Vuota – Storie di Vino

venerdì 29 agosto 2025

Dalla vigna alla panca – Il vino come linguaggio della comunità

 


C’è un filo invisibile che parte da una vigna e arriva fino a una panca di paese. È un filo fatto di terra, di mani callose, di botti che respirano lentamente nell’oscurità di una cantina, e che un giorno si scioglie in un calice condiviso tra amici o sconosciuti. Quel filo si chiama vino.

Per alcuni è solo un prodotto, per altri un piacere raffinato. Per me, e per chi è cresciuto nei borghi, il vino è molto di più: è un linguaggio. Non fatto di punteggi o classifiche, ma di sguardi, risate, silenzi. È la voce delle comunità, capace di parlare anche quando le parole mancano.


La vigna come punto di partenza

Tutto comincia in campagna, tra i filari che seguono il ritmo delle stagioni. Lì il vino non è ancora bevanda, ma promessa.
La vigna è fatica quotidiana: le mani che potano, il sudore che scende, la paura delle gelate, la gioia del grappolo che si colora. Ogni viticoltore sa che il vino non nasce solo dal terreno: nasce da una lotta costante contro il tempo, il clima, l’imprevisto.

Eppure, quella vigna, col suo profilo contro il cielo, custodisce già un destino: diventare calice che non si berrà mai da soli, ma sempre in compagnia.


Il vino nei borghi: rito sociale

Nei paesi di montagna o nelle colline abruzzesi che conosco, il vino ha sempre avuto un ruolo che va oltre la tavola. Non era solo bevanda: era rito.
Pensa alle feste patronali. Tra una processione e una banda, c’era sempre un bicchiere che passava di mano in mano, spesso di vino locale fatto in casa, conservato in damigiane. Nessuno chiedeva annate, denominazioni, punteggi. Era vino “nostro”, e questo bastava.

Oppure le vendemmie: il lavoro durissimo di un giorno diventava la cena lunga, rumorosa, con tavoli improvvisati e bottiglie che giravano tra giovani e anziani. Non servivano parole: il vino diceva già tutto, unendo generazioni in un unico brindisi.

E ancora le panche, sotto un tiglio o in piazza. Due uomini che si fermavano a parlare, una bottiglia posata accanto, e il mondo che, per un attimo, sembrava più semplice.


Il vino come linguaggio della comunità

Perché il vino, nei borghi, non era mai consumo individuale: era linguaggio collettivo.
Un bicchiere versato a un ospite era segno di benvenuto.
Un brindisi improvvisato era dichiarazione di amicizia.
Un calice condiviso in silenzio diventava complicità.

Non servivano frasi lunghe: il vino traduceva da solo emozioni e intenzioni.
Era un linguaggio che tutti capivano, anche chi non aveva studiato, anche chi non conosceva lingue straniere. Bastava un gesto, bastava un sorso.

Così, dalla vigna alla panca, il vino non perdeva mai la sua essenza: ricordare che siamo comunità.


Le trasformazioni dei tempi

Oggi tutto è cambiato. Nei bar cittadini il vino è spesso sostituito da cocktail veloci, negli aperitivi conta più l’immagine che la sostanza. I giovani bevono in modo diverso, spesso inconsapevole, a volte rischioso.

Eppure, nei borghi, il vino resiste come ponte.
Gli anziani che ancora spillano il loro rosso dalla botte e lo offrono con orgoglio.
I ragazzi che scoprono, magari tardi, che quel bicchiere racconta radici e tradizioni.
Le famiglie che, nelle feste, rispolverano bottiglie custodite per anni, e attorno a quelle bottiglie ritrovano parole che sembravano perse.

Non è nostalgia: è memoria viva. Il vino, se bevuto con misura e rispetto, continua a essere collante sociale.


Dalla vigna alla panca

Quando penso al titolo di questo articolo, “Dalla vigna alla panca”, vedo un percorso semplice e potente.
La vigna è l’inizio: la terra, la fatica, la speranza.
La panca è il punto di arrivo: il luogo in cui il vino diventa incontro, dialogo, condivisione.

E in mezzo c’è tutto un viaggio fatto di botti, cantine, mani che stappano, sorrisi che accompagnano. È un viaggio che non ha bisogno di guide o classifiche, perché parla da sé.


Il vino come bene comune

Forse oggi dovremmo riscoprire il vino come bene comune. Non inteso come proprietà, ma come eredità culturale.
Perché il vino ci ricorda che non siamo isole: siamo parte di una comunità che ha sempre trovato attorno a un calice la forza di raccontarsi.

Sulla panca vuota di un borgo abbandonato, una bottiglia lasciata lì può sembrare malinconia. Ma io la vedo come speranza: segno che, un giorno, qualcuno tornerà a sedersi e a brindare.


Conclusione

Il vino, in fondo, è questo: un linguaggio universale che unisce.
Non importa da dove arrivi, non importa chi sei: se condividi un bicchiere, diventi parte di una storia più grande di te.

Dalla vigna alla panca, il vino ci ricorda che l’uomo non vive solo di numeri e punteggi, ma di emozioni e legami. E in un mondo che corre sempre più veloce, forse dovremmo fermarci più spesso su quella panca, con un calice in mano, a ricordare che non siamo soli.


✒️ La Panca Vuota – Storie di Vino

giovedì 28 agosto 2025

Le classifiche del vino: contano le storie e le emozioni, non i punteggi

 

Il vino non si misura in voti: resta nella memoria, nei gesti e nelle emozioni.

C’è un momento, nella vita di chi ama il vino, in cui i numeri non bastano più. Io questo momento l’ho raggiunto oggi, a settant’anni.
Non alzo più il calice alle labbra come un tempo: lo faccio solo raramente, in occasioni speciali, quando sento che vale la pena fermarsi e celebrare. Ed è proprio in quei rari istanti che mi accorgo con chiarezza che le classifiche, i punteggi, le medaglie dorate stampate sulle etichette non raccontano nulla di ciò che davvero resta dentro di noi.

Il vino, per me, non è mai stato una gara. È stato piuttosto un compagno di viaggio, un custode di ricordi, un filo che lega persone, luoghi, emozioni. Oggi, che il calice lo sollevo di rado, mi accorgo che il vino continua a vivere in me anche senza essere bevuto ogni giorno: perché ciò che rimane non è il sorso, ma la memoria che quel sorso ha saputo imprimere.


I numeri non raccontano la vita

Per anni ho letto classifiche e guide. Era un modo per orientarmi, per curiosità, a volte anche per gioco. Un vino da 90 punti sembrava migliore di uno da 87. Una medaglia d’oro attirava l’attenzione più di un’etichetta semplice e sconosciuta.

Eppure, col passare del tempo, mi sono reso conto che quei numeri non raccontavano nulla di ciò che più conta: la vita.
Perché la verità è che lo stesso vino può sembrare diverso a seconda del momento in cui lo bevi, della compagnia, del luogo. Un 92 bevuto in solitudine può lasciare indifferenti, mentre un “anonimo” 84, bevuto in una sera d’estate con gli amici, può trasformarsi in una memoria indimenticabile.

Ricordo un bianco bevuto in riva al mare, molti anni fa, con persone care. Non aveva punteggi da rivista, eppure per me resta ancora oggi il vino più prezioso, perché legato a quel tramonto, a quelle voci, a quella stagione della mia vita.
Che voto avrebbe meritato? Nessuno. O forse cento. Perché non era un vino da classifica: era un vino da ricordo.


Le storie che restano nel bicchiere

Ho sempre pensato che il vino sia, prima di tutto, una storia. La storia di chi lo produce, di chi resiste alla fatica, di chi non abbandona la terra. Una volta, durante un viaggio in Abruzzo, incontrai un vignaiolo che mi disse: “Io non faccio vino per prendere premi. Io faccio vino per raccontare questa collina.”

Quelle parole mi sono rimaste dentro. In quel bicchiere non c’era un numero: c’era il vento che asciugava le uve, la terra sassosa, le mani screpolate dalla vendemmia, il padre che gli aveva lasciato la vigna in eredità.

Oggi capisco ancora meglio la verità di quel gesto. Perché se il vino sopravvive, lo fa grazie a chi lo difende con amore. E queste storie non finiscono mai nelle classifiche: eppure sono la vera anima del vino.


Il vino che ho bevuto, e quello che porto con me

Non bevo più come una volta. La salute e gli anni hanno ridotto i brindisi, e il calice lo sollevo ormai di rado, in occasioni che meritano davvero. Ma non ho bisogno di bere per ricordare.
Ogni bottiglia che ho incontrato è rimasta con me: un Montepulciano d’Abruzzo in una festa di paese, un Chianti bevuto in una trattoria toscana, uno spumante stappato in un matrimonio.

Non ricordo i punteggi, non ricordo le classifiche: ricordo le persone. Ricordo le voci, le risate, i volti che non ci sono più. Ricordo anche i silenzi, quando un bicchiere aiutava a trovare coraggio.

Il vino, oggi, è diventato un archivio della mia memoria. E questo archivio è sempre aperto: basta chiudere gli occhi e tornano i profumi, i sapori, le emozioni.


Le classifiche come bussola, non come tribunale

Non voglio dire che le classifiche non servano. Sono utili, soprattutto a chi inizia. Aiutano a orientarsi in un mondo vasto e complesso, dove le etichette sono migliaia e non sempre si sa da dove partire.

Ma non devono diventare tribunali che giudicano ciò che è valido e ciò che non lo è. Ho bevuto vini “minori” che mi hanno commosso, e bottiglie pluripremiate che non mi hanno lasciato niente.

Il vero appassionato sa che la bussola indica la direzione, ma il viaggio lo decide lui. Così è per il vino: la guida può suggerire, ma l’emozione la scegli tu.


Un calice, anche vuoto, parla ancora

Oggi, spesso, il mio calice resta vuoto. Eppure non è un vuoto triste. È un vuoto che parla, perché so che contiene ricordi.
Quando lo sollevo in rare occasioni, sento che quel gesto ha ancora più valore di prima. Ogni sorso è lento, meditato, quasi sacro. Non ho bisogno di bottiglie da collezione: mi basta la consapevolezza che il vino, anche in un assaggio, porta con sé una parte della mia vita.

Il calice vuoto diventa allora simbolo di memoria. Non bevo ogni giorno, ma continuo a “bere” col cuore: bevo ricordi, bevo emozioni. E mi accorgo che il vino è più grande del vino stesso: è un linguaggio che resiste anche quando non lo gusti più.


Conclusione

A settant’anni ho imparato che il vino non si misura con i numeri. Le classifiche hanno il loro senso, ma non raccontano ciò che conta davvero.
Oggi alzo il calice solo di rado, in momenti particolari, e proprio per questo ogni sorso è più intenso. Non cerco più i punteggi, non inseguo più le medaglie: cerco la memoria che un vino sa evocare, l’emozione che mi lascia dentro.

Perché alla fine il vino non è mai stato una competizione: è un compagno di viaggio. Anche quando il bicchiere resta vuoto, lui continua a parlarmi.
E allora capisco che il calice più prezioso non è quello pieno: è quello che custodisce le emozioni di una vita intera.


✒️ La Panca Vuota

giovedì 14 agosto 2025

Un bicchiere di troppo, un futuro in meno – Perché l’alcol non è un gioco da ragazzi

Era una sera d’estate come tante. Un gruppo di ragazzi si era dato appuntamento in piazza, nel cuore di un piccolo centro. Qualche risata, qualche battuta, la musica proveniente dal cellulare di uno di loro. All’apparenza nulla di nuovo, se non fosse che dopo poco una sirena ha rotto quel clima leggero. Un quindicenne, steso a terra, privo di sensi. Il pronto soccorso più vicino si è trovato di fronte all’ennesimo caso di abuso di alcol da parte di un minorenne.

Un episodio che, purtroppo, non è eccezione. Le cronache degli ultimi anni raccontano di giovanissimi che finiscono in ospedale per “coma etilico”, una definizione che sembra già di per sé paradossale se accostata a chi non ha ancora raggiunto la maggiore età. La domanda allora diventa inevitabile: perché accade? E soprattutto, chi si assume la responsabilità?

La cultura dello “sballo”

Non possiamo fingere di non vedere. L’alcol è ormai diventato parte integrante dei momenti di socialità, non più soltanto degli adulti ma anche degli adolescenti. Bere “per provare”, “per sentirsi grandi”, “per non essere esclusi” sono frasi che riecheggiano tra i giovanissimi. Spesso non si tratta di un bicchiere di vino a tavola, condiviso in famiglia, ma di quantità ingestibili di superalcolici consumati in fretta, senza controllo.

Dietro c’è una cultura che confonde divertimento con eccesso. E questo non nasce per caso: pubblicità, modelli culturali, social network che esaltano l’idea dello “sballo” come unico modo per vivere la giovinezza.

La legge c’è, ma va rispettata

La normativa italiana parla chiaro: la vendita e la somministrazione di alcolici ai minori di 18 anni è vietata. Non si tratta di un dettaglio burocratico, ma di un principio di tutela. Il corpo di un adolescente non è pronto a metabolizzare certe quantità di alcol. Il rischio di danni fisici e psicologici è concreto, e la statistica lo conferma: chi inizia a bere da minorenne ha più probabilità di sviluppare dipendenze o problemi di salute in età adulta.

Eppure, la realtà racconta altro. Troppi bar, discoteche, locali scelgono di chiudere un occhio pur di guadagnare qualche consumazione in più. A volte, addirittura, l’alcol viene venduto direttamente nei supermercati senza alcuna verifica dell’età. È qui che la responsabilità degli adulti diventa fondamentale: perché un divieto non serve a nulla se chi lo deve far rispettare lo ignora.

Il ruolo della famiglia

Non tutto si può scaricare sui locali. La famiglia resta il primo argine. Non per proibire e punire, ma per accompagnare, spiegare, educare. Parlare con i ragazzi di alcol, droga, dipendenze non significa togliergli libertà, ma offrirgli strumenti per scegliere. Fingere che “tanto non succederà” è una delle illusioni più pericolose.

Molti genitori raccontano di sentirsi disarmati. Ma la prevenzione inizia a casa: dal non normalizzare il “bere tanto” come fosse un vanto, dall’insegnare che una festa non si misura in bottiglie vuote ma nei ricordi condivisi.

I dati che non possiamo ignorare

Secondo le ultime indagini, in Italia oltre il 20% dei ragazzi sotto i 16 anni ha già avuto episodi di ubriacatura. Numeri che fanno riflettere, se pensiamo che stiamo parlando di studenti delle scuole superiori, ancora minorenni. Nei pronto soccorso, gli accessi per intossicazione da alcol in età adolescenziale sono in aumento.

E non parliamo solo di rischi immediati. L’alcol riduce i riflessi, aumenta i pericoli alla guida, favorisce comportamenti aggressivi o violenti. Un bicchiere di troppo può segnare non solo la serata, ma un’intera vita.

La comunità che educa

Serve un patto collettivo. Famiglie, scuole, istituzioni, attività commerciali. Tutti devono fare la propria parte. Non bastano le campagne di sensibilizzazione se poi davanti a un minorenne che chiede una birra nessuno dice “no”. Non serve indignarsi dopo l’ennesimo ricovero se prima non si agisce per evitarlo.

Le attività devono sentirsi parte della comunità, non solo esercizi commerciali. Vietare la somministrazione di alcol ai minori non è una seccatura, ma un dovere etico prima ancora che legale. Le scuole, da parte loro, possono creare percorsi di educazione più concreti e meno retorici, con testimonianze, incontri, esperienze dirette.

Non è proibizionismo, è protezione

Qualcuno liquida la questione come eccesso di rigidità. Ma non si tratta di togliere libertà, bensì di proteggerne una più grande: quella di crescere senza danni irreparabili. Vietare l’alcol ai minorenni significa offrire loro la possibilità di diventare adulti più consapevoli, più sani, più liberi davvero.

L’alcol, consumato con moderazione in età adulta, può far parte della nostra cultura e della convivialità. Ma introdurlo troppo presto, in dosi incontrollate, è una ferita che rischia di segnare una generazione.

Conclusione

Ogni volta che un ragazzo finisce in ospedale per aver bevuto troppo, dovremmo sentirlo come un fallimento collettivo. Non solo della sua famiglia, non solo del locale che gli ha venduto l’alcol, ma di un’intera società che troppo spesso preferisce nascondere il problema piuttosto che affrontarlo.

Vietare l’alcol ai minorenni non è solo una legge: è un atto di responsabilità verso il futuro. Un futuro che merita meno bottiglie vuote e più sogni pieni.


mercoledì 13 agosto 2025

L’Italia delle inaugurazioni – Nastri, buffet e applausi (per cosa?)

"Dal nastro al buffet: il Paese che inaugura tutto, tranne il futuro"

                      "Italia 2025: tagliare il nastro è un’arte. Riempirlo di contenuti, un optional."

 C’è un’Italia che corre veloce… verso il prossimo taglio del nastro.

Non importa cosa si inauguri: una panchina, un lampione, un cestino per la raccolta differenziata. L’importante è esserci, sorridere, stringere mani, farsi fotografare.

Il rito è sempre lo stesso: si sceglie un giorno (preferibilmente con il sole, o almeno senza pioggia battente), si piazza un bel nastro colorato, si allineano forbici fiammanti e si convoca la stampa locale. Poi si prepara il rinfresco — perché senza pizzette, taralli e bicchieri di plastica pieni di spumante dolce, che festa sarebbe? — e via con i discorsi.

Discorsi che, in genere, si assomigliano tutti: “Un grande traguardo per la comunità”, “Un segno di progresso”, “Un investimento sul futuro”. Frasi pronunciate anche se il “grande traguardo” è un cestino dell’immondizia dotato di posacenere incorporato o una panchina piazzata in un punto dove non passa mai nessuno.

Il copione non cambia mai: applausi alla fine, foto di gruppo con le autorità in prima fila, qualche sorriso di circostanza e, soprattutto, la pubblicazione immediata sui social. Perché l’evento non è ufficiale finché non è finito su Facebook con almeno tre hashtag e la frase “Un passo avanti per il nostro territorio”.

Nel frattempo, intorno all’oggetto della cerimonia, la realtà continua a bussare. Strade dissestate che potrebbero vincere un premio internazionale per la creatività delle buche. Uffici pubblici aperti due giorni a settimana, quando va bene. Servizi sanitari a singhiozzo, con medici che arrivano a giorni alterni e liste d’attesa che fanno sembrare la prenotazione di un concerto un gioco da ragazzi.

Ma oggi non si parla di questo: oggi c’è la festa. Oggi il Paese si mette il vestito buono, anche se sotto resta la solita maglia logora.

L’Italia delle inaugurazioni non conosce crisi. È un settore che funziona sempre, in ogni stagione e con qualsiasi amministrazione. In un Paese dove i cantieri veri durano decenni, la cerimonia dura un’ora e regala la sensazione di aver fatto qualcosa. È una forma di economia parallela, quella del “taglio del nastro”: pochi minuti di gloria, qualche articolo sul giornale, e poi tutto torna come prima.

C’è chi inaugura rotatorie minuscole, costate più in cartelli stradali che in asfalto. Chi taglia il nastro per una pista ciclabile lunga quanto il vialetto di un condominio. E chi organizza addirittura “reinaugurazioni”: opere già aperte anni prima, ma che, con una mano di vernice, tornano buone per un’altra foto ufficiale.

Non mancano le varianti folkloristiche: sindaci che si presentano in abito tradizionale, assessori che declamano poesie scritte per l’occasione, cori locali che intonano l’inno nazionale davanti a un palo della luce appena installato. L’importante è che il tutto sia condito con un buffet generoso: pizzette tiepide, tramezzini arrotolati e una crostata che fa la sua comparsa puntuale in ogni evento.

E c’è un altro dettaglio: queste cerimonie riescono a unire tutti. Non importa se durante l’anno maggioranza e opposizione si sono scannati su ogni questione possibile: davanti a un nastro da tagliare, si sorride tutti insieme. È la magia dell’inaugurazione: l’unico momento in cui la politica smette di litigare… fino al giorno dopo.

Il problema è che, spesso, si inaugura senza un vero seguito. La panchina colorata diventa grigia in pochi mesi, la fontanella smette di funzionare dopo due estati, la pista ciclabile resta vuota perché non collega a nulla. E il giorno in cui qualcuno fa notare queste cose, si risponde con un’altra cerimonia: magari per un nuovo progetto, così la vecchia opera cade nel dimenticatoio.

Ma la gente, a forza di partecipare a queste feste, impara a leggere tra le righe. E comincia a capire che non tutto ciò che si taglia con il nastro è davvero un passo avanti. Perché il progresso non si misura a forbici, ma a risultati.

Eppure, l’Italia delle inaugurazioni è resistente. Sopravvive ai governi, alle crisi economiche, ai cambi di amministrazione. È un po’ come la tradizione del caffè al bar: rassicurante, prevedibile, familiare. Fa sentire tutti parte di qualcosa, anche se quel qualcosa è, in fondo, un’illusione di movimento.

Avanti, quindi, con le panchine colorate, le rotonde con fontanelle, i cartelli turistici che nessuno legge e i cestini “intelligenti” che non parlano, ma si rompono presto. Avanti con le foto ricordo, i post sui social, gli hashtag pieni di entusiasmo. Perché, in fondo, non serve che le cose cambino: basta che sembrino nuove per il tempo di uno scatto.

Perché l’Italia, più che correre, ama sedersi… possibilmente su una panchina appena inaugurata.

La panca sotto il tiglio

 Storia di incontri, silenzi e presenze che restano anche quando non le vedi più

C’era una panca, in legno scuro e ferro battuto, sotto il grande tiglio della piazza. Nessuno sapeva da quanti anni fosse lì, ma in paese si diceva che avesse visto passare più stagioni di qualsiasi abitante vivente. La vernice era consumata, il ferro macchiato di ruggine, eppure la sua presenza dava un senso di continuità.

Ogni mattina, verso le otto, il primo ad occuparla era il signor Ernesto


. Giacca di lana anche d’estate, cappello calcato sugli occhi e un bastone più per compagnia che per sostegno. Non parlava molto, ma quando salutava lo faceva con un cenno lento, come a dire “ti vedo, e ti riconosco”.

La panca era il suo osservatorio. Da lì vedeva il fornaio aprire la serranda, il postino pedalare con il sacco giallo, i primi ragazzi correre verso la fermata dell’autobus. Ogni tanto si lasciava scappare un commento: “Eh, com’erano diversi i tempi…”. Non era nostalgia pura, era più una constatazione pacata, come se ogni cosa avesse un ritmo che ormai non riconosceva più.

A metà mattina arrivava Lucia, la sarta. Portava con sé un sacchetto di stoffe, si sedeva e raccontava storie. Non si capiva mai dove finisse la verità e dove iniziasse la sua fantasia. Ernesto la ascoltava senza interrompere, lasciando che le parole si mescolassero all’odore dolce del tiglio in fiore.

A mezzogiorno, la panca restava vuota. Il sole picchiava, la piazza si svuotava, e il silenzio diventava quasi rumoroso. Ma proprio quel silenzio era la parte più viva della giornata: le foglie frusciavano, un cane sonnecchiava all’ombra, e il tempo sembrava allungarsi.

Il pomeriggio portava nuovi avventori: due ragazzini con una palla sgonfia, la maestra in pensione che leggeva il giornale, e il barbiere che, tra una battuta e l’altra, lanciava commenti sulla politica nazionale. Ognuno si fermava un po’, poi riprendeva la sua strada. La panca non tratteneva nessuno, ma lasciava a tutti qualcosa: un ricordo, un pensiero, un momento di tregua.

Un giorno, Ernesto non arrivò. La panca rimase vuota fino a sera. Alcuni notarono l’assenza, altri no. Quando il giorno dopo la notizia della sua morte corse in paese, qualcuno portò un mazzo di fiori e lo lasciò lì, sul legno consumato.

Da allora, ogni mattina, chi passava davanti al tiglio si fermava un attimo. Non per sedersi, ma per guardare quella panca e ricordare che certe presenze restano, anche quando le persone non ci sono più.

E così, sotto il tiglio, la panca continuò a guardare la piazza. Senza parlare, senza muoversi, testimone silenziosa di un paese che cambiava, ma che – in fondo – aveva ancora bisogno di un posto dove fermarsi.

Morale: In un mondo che corre sempre più veloce, anche una semplice panca può insegnarci che fermarsi non è perdere tempo, ma ritrovarlo.

Questo testo è un racconto romanzato: luoghi e personaggi sono frutto di fantasia. Nasce per custodire memorie, emozioni e atmosfere dei borghi italiani, anche quando il tempo sembra averle dimenticate.

martedì 12 agosto 2025

La porta socchiusa – Piccole cose che tengono vivo un borgo

Racconto romanzato ispirato a luoghi, volti e memorie dei borghi italiani. Scritto per gli adulti, perché possano ritrovare storie vissute, e per i giovani, perché possano scoprire un mondo che non esiste più.

In ogni paese di montagna c’è sempre una porta che non si chiude del tutto.
Magari è il vento, o una cerniera stanca, o il legno che con il tempo si è piegato e non combacia più perfettamente con lo stipite.

Ma nei borghi antichi, una porta socchiusa non è quasi mai un caso: è un’abitudine, una piccola dichiarazione di fiducia.
Vuol dire: “Sono in casa, passa pure”.
Vuol dire che dentro c’è qualcuno che non ha paura del mondo, o che ha deciso di affrontarlo lasciando sempre uno spiraglio per chi bussa.
Era una porta verde, con la vernice scrostata agli angoli e una toppa arrugginita che nessuno usava mai.
Restava aperta quanto bastava per far entrare la luce, l’odore dell’aria e, soprattutto, le persone.
Se non eri di casa, bussavi e aspettavi un “Avanti!” che arrivava sempre col sorriso.
Se eri di famiglia o del vicinato, entravi senza cerimonie, con il passo sicuro di chi non aveva bisogno di permessi.
La porta socchiusa era una garanzia: se eri stanco, potevi fermarti; se eri allegro, trovavi qualcuno con cui condividere la risata.
Prima con il legno, poi con la chiave, infine con una sbarra di ferro.
È un cambiamento silenzioso ma decisivo: quando una porta resta serrata per mesi, diventa come un muro in più tra le persone.
E il silenzio, poco a poco, prende il posto delle voci.
E ci sono porte che non si aprono più: dietro di esse, polvere e ricordi condividono lo stesso spazio, in attesa di un ritorno che non arriva mai.
Aveva un’anta che cigolava e che lei non si preoccupava mai di aggiustare.
La lasciava socchiusa “perché l’aria deve girare”, diceva.
In realtà, era un invito costante: chi passava poteva affacciarsi e, inevitabilmente, finire seduto al tavolo davanti a un caffè o a un bicchiere di vino.
A volte, bastava sentire il tintinnio dei bicchieri o il rumore di una sedia che si spostava per capire che lì dentro stava nascendo una chiacchierata lunga tutto il pomeriggio.
Dal laboratorio, il profumo del legno fresco si spargeva per il vicolo, e chiunque passasse si fermava a guardare.
Peppe non diceva mai “buongiorno” o “buonasera” come prima cosa: diceva “Vieni, guarda qui”, e ti mostrava l’ultimo pezzo che stava lavorando.
Quella porta era un’attrazione turistica involontaria: gente del paese, bambini curiosi, persino forestieri che si avventuravano tra i vicoli per scoprire da dove arrivasse quell’odore di pino e noce.
Allora, dalla porta socchiusa uscivano profumi di cucina: sugo denso la domenica, minestrone in inverno, caffè forte al mattino.
Ora quelle porte sono serrate, a volte murate, e il vento non trova più spiragli per portare dentro la voce del paese.
Una porta socchiusa non è solo un dettaglio: è una scelta.
È dire al vicino: “Fidati di me, io mi fido di te”.
È ricordare che la casa non è un rifugio privato ma un punto d’incontro.
Che vivere in un borgo significa condividere, non solo abitare.
Mi rispose:
Se arrivavi, entravi.
Se avevi fame, ti sedevi.
E se avevi un problema, non bussavi nemmeno: entravi e lo dicevi.
Così si viveva, e io non vedo perché cambiare”.
dalla fiducia di una porta lasciata appena aperta.
Perché finché ci sarà anche solo una porta socchiusa, ci sarà la possibilità di entrare.
E finché si entra, ci si incontra.
E dove ci si incontra, la vita continua.

La porta socchiusa è un messaggio in codice che tutti, lì, sanno leggere.

Quando ero bambino, mia nonna aveva una porta così.

Quella porta era il punto di passaggio di mille storie: il latte fresco lasciato sul tavolo, la vicina che arrivava con un piatto di pizzelle ancora calde, il postino che entrava fino alla cucina per bere un bicchiere d’acqua.

Oggi, invece, nei borghi che si svuotano le porte si chiudono sempre meglio.

Ci sono porte che si aprono solo per la spesa settimanale o per una messa solitaria la domenica mattina.

Ricordo la casa di zia Carmelina, poco sopra la piazza.

Anche la casa di mastro Peppe, il falegname, aveva la porta sempre aperta.

Quando torno al mio paese d’estate, passo sempre davanti a certe case che da bambino vedevo piene di vita.

Eppure, basterebbe poco per far rivivere quell’abitudine.

Un giorno, parlando con un anziano del paese, gli chiesi perché la sua porta restasse sempre aperta.

“Perché quando ero ragazzo, qui non c’era nessuno che ti chiudeva fuori.

Forse per salvare un borgo bisogna ricominciare da lì:

📚 Questo racconto fa parte di una serie dedicata alla memoria e alla vita dei borghi.

Nota: persone, luoghi e fatti narrati sono frutto di fantasia o liberamente ispirati a elementi reali. Ogni riferimento a persone realmente esistenti è puramente casuale.

lunedì 11 agosto 2025

Il giorno dopo – Sbronze di cronaca, sbornie di silenzio

Ieri, a Vasto Marina, la “Notte Rosa” ha vestito la costa di luci, musica e bicchieri.
Una festa che doveva essere il manifesto dell’estate, tra selfie, concerti e gelati sciolti dal caldo.
Ma l’alba non ha trovato soltanto bottiglie vuote sulla sabbia: dieci ragazzi, tutti minorenni, sono finiti in ospedale in coma etilico.
Ambulanze in fila, medici in affanno, titoloni sui giornali: “Notte Rosa da incubo”.

E come sempre, il copione dell’indignazione è servito.
Autorità locali pronte a rilasciare dichiarazioni indignate: “È inaccettabile che si venda alcol ai minori!”.
Editorialisti dal tono grave: “Serve più educazione e controlli”.
Genitori sorpresi come se i loro figli fossero caduti dal cielo direttamente in discoteca.

E oggi?
Oggi il mare è tornato calmo, le panchine sono vuote, i tavolini dei bar apparecchiati come se nulla fosse successo.
Nessun titolo in prima pagina.
Nessun dibattito televisivo.
Nessun talk show con esperti in psicologia adolescenziale.

Eppure, dieci ragazzi sono stati a un passo dal non svegliarsi più.
Ma questo è “ieri”.
Il giorno dopo, nel nostro Paese, non interessa a nessuno.


L’attenzione a orologeria

L’Italia funziona così: un problema esiste solo nel momento in cui diventa spettacolo.
Se non c’è una sirena, una telecamera e un hashtag, allora non merita di esistere.
L’alcol ai minori è una questione da manuale: da anni i dati parlano chiaro, ma la cronaca si ricorda di occuparsene solo quando dieci ragazzi finiscono in ospedale tutti insieme.

Il giorno dopo, invece, si chiudono i microfoni, si spengono le luci, e ognuno torna al suo aperitivo.
Nessuno che si chieda chi ha venduto quelle bottiglie, chi ha organizzato la festa, chi doveva vigilare.
E soprattutto, nessuno che metta in agenda una discussione vera, quando le onde non sono ancora tornate piatte.


Nei borghi e sulle spiagge: stessa dinamica

Nei borghi spopolati, il silenzio è un’abitudine antica: si parla di spopolamento solo quando crolla una casa o chiude l’ultimo negozio.
Sulle spiagge, invece, il silenzio è una scelta: si preferisce far dimenticare in fretta.
Così, il giorno dopo la “Notte Rosa”, nessuno mette più il naso in quel capitolo.

L’unica continuità tra un paese di montagna che perde abitanti e una località di mare che perde coscienza per l’alcol è questa: se ne parla solo quando fa notizia, poi il vuoto.
Un vuoto che non è solo demografico o di memoria, ma culturale.


Il gioco delle parti

C’è un copione fisso:

  • Il sindaco annuncia controlli più severi.
  • La polizia promette presidi permanenti.
  • Le associazioni lanciano appelli educativi.

Poi passa una settimana, e il tema sparisce.
Perché parlare di prevenzione prima non rende come parlare di scandalo dopo.
E così, ogni anno, alla prossima “Notte Rosa” ci sarà un nuovo record di coma etilici da battere.


Una memoria da pesce rosso

Viviamo in un Paese in cui la memoria pubblica dura quanto una storia di Instagram.
Ventiquattr’ore e puff, scompare.
Il problema non è tanto che dieci ragazzi abbiano bevuto fino a crollare, ma che il resto del Paese abbia già dimenticato dopo un caffè e una brioche.

Eppure, la soluzione sarebbe banale: educazione continua, controlli reali, sanzioni applicate davvero.
Ma questo richiede costanza, e la costanza non fa notizia.


La satira del giorno dopo

Immaginate la scena:
In un borgo spopolato, il sindaco parla in piazza del “riconoscimento della Palestina” davanti a due anziani seduti in panchina.
Uno dice: “Non sento, l’apparecchio non funziona”.
A Vasto Marina, stessa scena ma con i giovani:
il palco è la spiaggia, il sindaco annuncia nuove regole, e i ragazzi rispondono: “Scusi, ma sabato prossimo si beve uguale?”.

La differenza è solo anagrafica: il disinteresse è lo stesso, cambiano gli effetti collaterali.


Conclusione: bere per dimenticare

Il giorno dopo, le bottiglie sono vuote, i bicchieri pure, ma la testa resta leggera.
Non per la sbronza…
ma per il vuoto di memoria.
Un vuoto che riempiremo alla prossima emergenza da copertina, con nuovi titoli, nuove indignazioni e nuove promesse.
E poi, di nuovo, silenzio.